J.S. Ondara
Tales of America
[
Verve Forecast
2019]

jsondara.com

File Under: la ballata del migrante

di Fabio Cerbone (28/02/2019)

I racconti americani di J.S. Ondara arrivano da una prospettiva un po’ speciale, quella di un ragazzo kenyota, immigrato nella “terra delle opportunità” e con una fulminea crescita artistica che gli ha procurato un contratto discografico con la Verve. Tales of America è un esordio che colpisce prima di tutto per ciò che gli sta intorno: il personaggio, il suo vissuto, la favola moderna di un giovane musicista che sogna, dai sobborbhi di Nairobi, di giungere nella terra di Bob Dylan, il freddo e inospitale Minnessota, perché un giorno non lontano è rimasto folgorato dall’ascolto di The Freewheelin’ Bob Dylan.

Un bel salto di temperatura, e non solo climatica: l’American Dream di cui va cantando e la nazione a cui lancia la sua bedizione (nella speculare chiusura di God Bless America… nulla a che fare con il brano patriottico di Irving Berlin), possiedono una doppia faccia, non sempre privilegiata come la sua, quando Ondara si chiede se ci sarà posto anche per lui (un immigrato qualunque) in questo luogo di presunta prosperità. Lo ha desiderato sin da bambino, quando la famiglia non aveva i soldi per comprargli una chitarra, ma lui componeva già melodie immaginarie e scriveva testi, stralci di poesie, piccole storie. I genitori pensavano sarebbe diventato un dottore o un avvocato, con tutti gli sforzi per farlo studiare, ma J.S. Ondara, con una innegabile ostinazione e anche un bricolo di fortuna (che serve sempre), ha ottenuto una Green Card, si è appoggiato agli zii che già vivevano negli States ed è volato a Minneapolis. Qui ha imparato a suonare quattro accordi e i rudimenti della folk music, ha inciso un ep e si è fatto notare dalla radio pubblica.

Tales of America è il passo successivo, inciso a Los Angeles sotto la direzione musicale di Mike Viola (Ryan Adams band) e con le collaborazioni di Andrew Bird, Taylor Goldsmith (Dawes) e Joey Ryan (Milk Carton Kids). Non seve altro a dire il vero, perché da subito risalta la sceneggiatura essenziale e acustica del disco, tutto incentrato sulla voce non comune di Ondara, spesso fin troppo calcata nella sua espressività emotiva. È incontestabile tuttavia che la formula sia efficace: Torch Song, Television Girl, una Days of Insanity per acustica e basso che arriva a Van Morrison passando per il primo Ray Lamontagne, fino all’isolato canto a cappella di Turkish Bandana, sono ballate folk che hanno il respiro di un’America immaginaria e antica, rivisitata con gli occhi innocenti di chi l’ha appresa di riflesso.

Ondara mostra la sensibilità di un interprete smaliziato e questo è il complimento migliore per un ventiseienne che fino a poco tempo fa non sapeva neppure imbracciare uno strumento: i languori, anche un po’ sdolcinati, di Saying Goodbye e l’andatura swingante di Lebanon aggiungono ritmo all’architettura country folk su cui poggia l’album, un progetto anche un po’ ruffiano in alcuni momenti, che si guarda bene dall’abbandonare questa strada maestra, la stessa di un folksinger sentimentale (Give Me a Moment, Good Question, nel solco del Ryan Adams più solitario e romantico), a nudo nelle sue fragilità eppure consapevole di potersi giocare tutto il suo talento.


    


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