In principio Colfax,
esordio della band nel 2014, sembrava un estemporaneo progetto rispetto
alla carriera di Willy Vlautin, come leader dei Richmond Fontaine e soprattutto
come scrittore in via di consacrazione. Una manciata di canzoni fra alternative
country crepuscolare e carezze soul notturne che gli erano state ispirate
dalla musa Amy Boone, già voce delle Damnation Tx, amica e collaboratrice
dello stesso Vlautin: lui scriveva testi che erano short stories
dall’America reietta, lei cantava con dolcezza e abbandono quegli stessi
drammi. Il plauso unanime ottenuto dalla creatura The Delines fece
subito capire che il gruppo aveva un futuro più solido del previsto: un
fortunato giro fra States, Europa e persino Australia diffuse il culto
e portò in dono anche un disco di passaggio, Scenic Sessions, pubblicato
in esclusiva per il tour.
Perché dunque sono passati quasi cinque anni da quella rivelazione?
The Imperial recupera il tempo perduto e rimette letteralmente
insieme i cocci di un lavoro lungo tre stragioni insieme al produttore
John Askew (Laura Veirs, Sera Cahoone), interrotto in maniera brusca nel
2016 a causa del grave incidente subito da Amy Boone, investita da un’auto
per le strade di Austin. Diverse operazioni alle gambe, entrambe fratturate,
una lenta, estenuante riabilitazione, che ha portato con sè anche insicurezza
e attacchi di panico, ma alla fine l’album ha trovato uno sbocco. Ed è
un mezzo miracolo non solo per i trascorsi drammatici di Amy Boone, ma
per la qualità che la band ha saputo infondere in questi brani: l’esperienza
dal vivo e la maggiore coesione musicale sono evidenti all’ascolto, quando
il primo personaggio della penna di Vlautin, Cheer
Up Charlie, si anima fra i languori country soul della pedal
steel Tucker Jackson e il piano elettrico e i fiati di Cory Gray (ultimo
arrivato ed elemento essenziale nella parca architettura sonora dei Delines).
Completati dalla sezione ritmica degli ormai disciolti Richmond Fontaine
(Sean Oldham alla batteria, Freddy Trujillo al basso), The Delines continuano
ad accarezzare l’altra faccia dell’american dream, mandando cartoline
dalla desolazione umana del paese, e cercando al tempo stesso il calore
e l’affetto dei sentimenti quotidiani, instillati da Vlautin nei versi
che descrivono i suoi personaggi. Nella title track dipinge l’incontro
di una coppia dopo anni di separazione, lui appena uscito dal carcere,
mentre il candore soul di Where Are You Sonny?,
a completare un trittico di apertura magistrale, trasmette il senso di
perdita e lontananza di una donna nei confronti del suo uomo. Se pensate
che queste ballate riflettano troppo dolore, non spaventatevi: The Delines
tratteggiano una musica maliconica sì, ma avvolgente come una coperta,
una stretta di mano affettuosa fra tradizione southern soul, country d’autore
e distanze desertiche, sublimata da piccole epifanie che portano il titolo
di Let Be Us Again, Eddie and Polly
e That Old Haunted Place.
Sono canzoni in cui contano tanto i silenzi e le pause (magistrale in
tal senso l’interpretazione della Boone nella diafana Roll Back My
Life) quanto le tenui pennellate degli strumenti, chitarre, organo,
tromba, pedal steel a lavorare di sottrazione. Il legame più volte scomodato
con le figure di Bobbie Gentry e Dusty Springfield è facile da evocare,
per la presenza accorata di Amy Boone al centro del sound dei Delines,
ma lei sembra piuttosto una Margo Timmins in chiave soulful e la sceneggiatura
di The Imperial risuona come una inedita versione dei Cowboy Junkies
in visita a Muscle Shoals.