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from Jeff's room di
Fabio Cerbone (01/12/2018)
L'avventura
Wilco è in pausa di riflessione, e il suo stato di salute artistica è abbastanza
precario, possiamo dirlo, ma ultimamente anche la carriera solista di Jeff
Tweedy non sembrava godere di grande slancio. Di sicuro un progetto come Together
at Last, canzoni ripescate dal passato nonché rivisitazione in scarna
chiave acustica del proprio songbook, non faceva altro che lasciare aperte mille
incognite sulle reali intenzioni di Jeff: crisi della maturità, processo inevitabile
di decadenza o un lumicino di ispirazione che ancora covava sotto le ceneri? Warm
imbocca per fortuna la terza via e ci rincuora sulle qualità e lo stato di forma
di uno degli autori più importanti usciti da quella generazione americana che
una trentina di anni fa ricondusse lo sguardo verso le radici.
Non emerge
a caso il riferimento al periodo mitologico degli Uncle Tupelo, o dei primi Wilco
in cerca di identità nel recinto dell'alternative country, perché queste ballate
senza fronzoli e ammantate di un suono confortevole e confessionale (il figlio
Spencer Tweedy e l'amico Glenn Kotche ai tamburi, il resto, fra languide chitarre,
slide di sottofondo e ammennicoli sonori vari, in mano al titolare), sono quanto
di più vicino a quella idea abbia prodotto Tweedy nelle recenti stagioni: e così
Let's Go Rain saltella con una dimessa cadenza
country e si interroga sui destini dell'umana esistenza, mentre la lucentezza
elettro-acustica delle melodie di Don't Forget
e I Know What It's Like non avrebbe affatto
sfigurato nelle scalette di album quali A.M. o Being There. Ne ricordano il passo
più indolente che caratterizzava epifanie roots dalla provincia americana quali
Far Far Away o Passenger Side, mettendo un po' in disparte tutta
quella spericolata (e affascinante, sia chiaro) deviazione di percorso che i Wilco
hanno affrontato in seguito.
Warm, ideale compendio musicale di un contemporaneo
libro autobiografico - Let's Go (So We Can Get Back) - preferisce invece
esaminare, attraverso la lente di un songwriter sensibile e onesto con se stesso,
le piccole rivelazioni della quotidiniatà, magari lanciando ammonimenti ai figli
(la citata Don't Forget) o affrontando con disincanto e un briciolo di
ironia i propri errori (l'intorpidito incedere di Having Been Is No Way to
Be). Se il rischio è quello di scadere nella pura nostalgia, o peggio in un
monologo personale e verboso, sappiate che Tweedy esorcizza i suoi pensieri cantando
per sé e per gli altri al tempo stesso, senza distinzioni. Lo chiarisce bene George
Saunders, ammirata voce della letteratura americana contemporanea (Man Booker
Prize nel 2017 per "Lincoln nel bardo", pubblicato per Feltrinelli in Italia),
a cui sono addirittura affidate le note di copertina di Warm: "Jeff è il nostro
grande, beffardo poeta americano della consolazione", afferma Saunders, e aggiunge
che se l'arte, quella che lascia davvero un segno, è l'esito di una grande personalità
costretta in una forma compressa, come può essere una canzone di tre minuti, allora
Warm ha raggiunto il suo obiettivo, toccando corde che fanno vibrare ancora all'ascolto.
Capita nei ritmi imbambolati di Bombs Above e della conclusiva
How Will I Find You?, o in quelli più sbarazzini
di Some Birds, e fra le crescenti volute psicchedeliche
che trascinano The Red Brick (forse la più "wilchiana" ed elettrica fra
tutte le canzoni qui riunite). Non è tutto perfetto, certo, né per forza
memorabile, come non lo sono quei dischi che hanno un carattere un po' enigmatico,
introspettivo, che nascono prima di tutto come un faccia a faccia con la propria
anima, ma che in qualche modo escono miracolosamente allo scoperto e acquistano
un valore universale.