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post punk survivors di
Fabio Cerbone (01/08/2017)
"Mi
sento come se camminassi nelle scarpe di un altro uomo/ qualcuno che si rifiuta
sempre di seguire il piano prestabilito" canta Peter Perrett in Take
Me Home, invocazione rock con un senso salvifico che conclude il suo inaspettato
ritorno solista, How the West Was Won. Tra i grandi rinnegati ed
eterni outsider del rock'n'roll, Perrett è stato la voce e la penna degli Only
Ones, culto giustificato di un'Inghilterra travolta dal punk e dalla conseguente
onda lunga della new wave, a cavallo tra la fine dei settanta e l'alba degli ottanta.
Tre dischi, belli, arruffati, poetici, di un rock chitarristico e melodico al
tempo stesso che sapeva di New York e Velvet e in qualche modo spalleggiava a
distanza l'opera dei Television, ma con una sensibilità tutta british.
Una predilezione del tutto personale per l'omonimo esordio del '78 e per
il capolavoro trascurato Even Serpents Shine, e almeno un singolo da segnare negli
annali di quella stagione: Another Girl, Another Planet, che non a caso
i Replacements di Paul Westerberg eseguivano dal vivo. Poi l'oblio o quasi, trent'anni
di decadenza e luoghi oscuri, con qualche improvvisa riapparizione sulla scena.
Le cause? Quelle che si possono immaginare da chi è uscito con le ossa rotte da
quella rivoluzione: Peter Perrett non si faceva vivo dal 1996 in veste solista
(Woke Up Sticky) e dal 2007, quando, come tanti altri, non resistette all'idea
di una reunion degli Only Ones. A maggior ragione How the West Was Won è imprevisto
e adorabile nel suo collocarsi fuori del tempo: l'understatement del personaggio
è già evidente in copertina, colto di spalle, al resto ci pensa una musica ancora
vitale e segnata dai suoi amori giovanili, un rock'n'roll loureediano nelle candenze,
nel pigro narrare della voce di Perrett e nel sound acerbo, chitarristico della
band.
Un affare di famiglia quest'ultima, formata dai figli Peter Jr.
al basso e dall'ottimo Jamie alle chitarre e tastiere, elemento essenziale
nel tratteggiare le linee sonore di An Epic Story,
della riverberata Hard to Say No, della lunga e drammatica Living
in My Head. Dieci episodi sull'amore e la disperazione, sul ritrovare
se stessi, raccontati a volte con distacco e sottile ironia, altre con affetto
e passione (come quando la figura della moglie e dell'amore familiare emergono
nella citata An Epic Story e in C Voyeurger). La title track è esemplare
in tal senso: una allegoria sulla società dello spettacolo americana e al tempo
stesso una metafora della condizione dello stesso Perrett, che prende come pretesto
la conquista dell'Ovest e la sua brutalità. La canzone gigioneggia con una languida
chitarra slide e un riff familiare, una Sweet Jane aggiornata al 2017 e annaffiata
dall'indolente stile vocale di Perrett.
Non è il brano migliore, eppure
l'annuncio di un album incantevole nella sua imprevedibile apparizione: tutti
gli accenti british salgono in superficie con la dolce melodia di Troika
ed esplodono nella perfezione pop trasognata di Sweet
Endeavour, un efficace folk rock tra Byrds e George Harrison si palesa
con Man of Extremes, mentre la "svogliata" rincorsa di Someting
in My Brain torna ad elaborare Lou Reed e neo-psichedelia.