File Under:southern
garage soul di
Fabio Cerbone (01/06/2017)
L'ugola
bruciata dal soul e le chitarre che scalciano imbizzarrite un rock'n'roll di scuola
sudista, Heath Green and the Makeshifters sono un quartetto dell'Alabama
- un luogo, un destino direbbe qualcuno - che tiene alto il vessillo di un rock
regionale dove tutte le radici e la tradizione alle spalle di questi musicisti
sono resi espliciti. Uscendo da casa Alive Natural Sound, etichetta che da sempre
flirta con i suoni grezzi del rock'n'roll, siano essi imparentati con il fango
del blues o con l'attitudine più sfacciata del garage, sappiamo già in quale terreno
andremo ad affondare mani e piedi, qui delle vere e proprie sabbie mobili, tra
gli acquitrini e le paludi del Deep South.
Esordio concitato e passionale
questo Heath Green and the Makesshifters, robusto e senza sbavature
proprio perché frutto di una lunga gavetta, quindici anni nei quali il leader
e pianista della band ha lasciato il segno sulla scena locale di Birmingham, passando
attraverso gruppi durati lo spazio di un tour come Mudpie, Fishergreen e Back
Row Baptists, prima di trovate l'equilibrio nella formula pastosa, eccitata, densamente
elettrica di oggi, con il vecchio collaboratore Jason Lucia ai tamburi, Jody Nelson
alle chitarre e Greg Slamen al basso. Il loro è un r&b sporcato di boogie rock
invecchiato in botti di bourbon, dove il canto viscerale di Heath Green può sciogliere
le briglie e trascinare il gruppo in una bettola: Out
on the City detta la linea con il tichettio delle chitarre e Secret
Sisters la tallona a stretto giro, una versione più rozza dei Black Crowes
se volete, con qualche suggestiva vicinanza vocale tra lo stesso Green e Chris
Robinson. Il piano nella mani del leader garantisce un appiglio sicuro alla matrice
soul, senza impedire ai Makesshifters di suonare rocciosi: l'anima blues scorre
nelle vene di Ain't Got God, Ain't that
a Shame potrebbe sbucare dagli studi Muscle Shoals nel periodo d'oro del soul
sudista, salvo quei solismi lancinanti della chitarra di Jody Nelson che hanno
più sangue rock'n'roll, mentre Hold on Me
alza ancora il livello di parossismo, fra stilettate southern rock che lasciano
ferite aperte.
L'originalità non è la chiave per leggere in controluce
Heath Green and the Makeshifters, si sarà capito, ma è la band stessa a non fare
mistero dei suoi padri putativi e noi con loro non abbiamo nulla da recriminare:
c'è il fantasma di Steve Marriott (Humble Pie) che ogni tanto sembra impossessarsi
del canto di Heath Green (la vorticosa tirata hard blues di Livin'
On The Good Side), un po' degli ZZ Top più limacciosi di inizio carriera
nei riff, il plateale esibizionismo muscoloso di gente come i Black Oak Arkansas,
molto hard inglese di prima generazione (Took Off My Head è delta blues
e zeppeliniana al tempo stesso, Ain't Ever Be My Babe non è da meno) e
più in generale tutta quella valanga che prese piede sotto la linea Mason-Dixon
nella prima metà degli anni Settanta. Materiale infiammabile, maneggiare con cura.