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west coast renaissance di
Fabio Cerbone (01/07/2017)
Agrodolce
ballata in onore della terra di California questo Big Blue, terzo
lavoro indipendente di Marlon Rabenreither, in arte Gold Star. Tutto o
quasi parla di luoghi, persone, immaginari vissuti nell'eldorado americano, o
quello che ne è rimasto. A giudicare dall'intensità con la quale Gold Star descrive
i suoi sentimenti, il fascino un po' decadente eppure irresistibile di L.A. e
della sua tradizione musicale continua a mietere vittime, buon ultimo un ragazzo
di origini austiache, nato a Vienna e approdato negli States a quattro anni, cresciuto
tra gli orizzonti della Pacific Coast Highway, fantasticando stagioni di musica
e letteratura che hanno educato intere generazioni.
Lui ci prova direttamente
sul campo, accetta la sfida e sforna un disco breve, disseminato di ballate e
tempi medi che hanno il sapore dell'alternative country più melodioso, della canzone
d'autore che si abbevera alla fonte folk rock del Laurel Canyon, seguendo un filo
rosso che conduce da Neil Young a Ryan Adams, passando per il Jeff Tweedy più
languido degli esordi, quello ancora invaghito della campagna roots in Being There,
e l'ultimo Grant Lee Phillips. Alcune suggestioni di un album che sarà troppo
facile accusare di scarsa originalità e che pure mette in fila tredici canzoni
rotonde come non si sentivano da tempo in mano a uno sconosciuto, armoniose nel
cullare un sound elettro-acustico che non conosce cali di tensione. Gold Star
punta tutto sulle passioni di Marlon, che cita Raymond Chandler e John Fante,
dedica Sonny's Blues all'intellettuale nero
James Baldwin (da un omonimo racconto di quest'ultimo) e vagheggia tra i fantasmi
di Bukowski e Jack Kerouac.
Il tutto si traduce in storie e volti personali
che si perdono nelle stanze di Big Blue, dal nome del grande caseggiato in quel
di Hollywood dove Rabenreither vive insieme ad un'altra trentina di giovani artisti
e sognatori e dove il disco in questione è stato registrato tra una cucina e un
salotto. Lo scatto di copertina rende bene l'idea e il bianco e nero aumenta l'attrazione
per un'agognata West Coast, là dove il romanticismo di Blue
Moon incontra il country rock It Ain't Easy e Come
With Me, materiale che pare sbucare tra un sessione di Gold di Ryan
Adams e una di Harvest di Neil Young (l'attacco di San
Francisco Good Times e i languori della pedal steel sono un tuffo al
cuore e un colpo basso nello stesso tempo). La sceneggiatura è solida e regge
proprio nello schema fisso che propone: brani brevi e dritti all'anima del songwriter,
raramente oltre i tre minuti, con un sobbalzare docile tra acustiche e pianoforte,
soffi affettuosi di armonica, e un'elettricità mai esibita, semmai al servizio
costante della canzone, come avviene in St. Vincent De
Paul's e Deptford High St., qualche volta sfruttando la naturale
coralità di questa musica, fra l'intreccio con le voci femminili (Analisa Knows,
Be Here Now).
Logico pensare che ci sia ancora spazio per far germogliare
tali composizioni, catturate con un senso di onestà in presa diretta, due giorni
in studio con i diversi musicisti raccolti intorno alla voce di Rabenreither.
Nel frattempo Gold Star, oltre ogni legittima critica sulle ispirazioni musicali
rubate, ha dato forma ai suoi sogni californiani con una raccolta che brucia di
una rara intensità giovanile.