La
scelta di porre alla produzione l'incolore Chris Brown forse è avvenuta per l'origine
comune di entrambi come pianisti, ma chissà cos'avrebbero ottenuto John Simon
o Bill Smyzick… perchè questo buon disco prosegue sulla falsariga dei predecessori,
rifinisce quel grezzo piacevole che dominava agli esordi, ma non aggiunge altro.
I partecipanti: Tony Scherr (ha suonato per Al Di Meola, Ani DI Franco, Bill Frisell)
al basso, Gregor Beresford alla batteria e lo stesso Brown alle tastiere arrivano
tutti da esperienze comuni, come il contributo di un'altra sodale del produttore
ai cori, Kate Fenner. Questo lavoro è del 2017 ma suona come un abile compromesso
fra l'epoca d'oro del rock country (1968-1972) e il declino di quello alternativo
dopo il 2005. David Corley nello star distante dalla scorante modernità,
dimostra ancora tutti i suoi pregi: chitarrista originale, pianista emotivo, cantante
accorato, autore copioso; ma parimenti ciò stanno anche i suoi difetti, ovvero
gli arrangiamenti.
La ripetitività individuata da Gianfranco Callieri
nel recensire su queste pagine i dischi precedenti, è divenuta cifra stilistica,
al punto che le canzoni potrebbero venir ridotte della metà di durata, ma Corley
sceglie d'interpretarne le parti con un'intensità che le salva dai rischi della
noia. Vision Pilgrim in sette minuti immette
l'ascoltatore in un crocevia sublime fra il primo Neil Young e il secondo Bob
Seger, un dialogo ossessivo e sublime fra chitarre e pianoforte in cui risuona
un cenno al Soul di inizio anni Sessanta; Never Say Your Name indulge in
un climax dilatato, Whirl è toccante per via
del testo autobiografico e gioca un ponte fra Tom Waits e Jackson Browne, Splendid
Now è un altro bozzetto pieno d'incastri blues nel flusso country,
A Lifitime of Mornings porta l'attenzione sulla calma desolazione del suo
passato di camionista. In Desert Mission si
capta molto il peso di Brown, una rilettura della Band fatta nello stile cantautorale
novantiano canadese, come in Splendid Now il compromesso fra i due genera un ibrido
incerto fra le fonti sonore scelte finchè spicca il volo nell'epico finale, mentre
i difetti emergono nelle protratte Burning Chrome e Down With the Universe.
Il grande capolavoro del disco è l'omonima: il lamento riverberato di
Corley si staglia flebilmente possente sulla lotta continua fra chitarra e piano
minimali, mentre la sezione ritmica incede con un ritmo ferroviario a scartamento
ridotto, una risposta country ai Mercury Rev. La produzione di Brown esalta il
lato già conosciuto del nostro, ma suoni più lucenti avrebbero donato una svolta
alla sua carriera. Ciò detto Zero Moon, nella lunga notte
di quest'epoca, è il canto lugubre e scorato di un paesaggio senza luna illuminato
dalla consapevolezza di David Corley, sopravvissuto a due infarti, una vita da
camionista e musicista e in fuga dalla miseria rurale dell'Indiana. Superba la
copertina, uscita dagli anni 1970, anche lei lontana dalle miserie odierne. Ultima
riflessione: che in questo periodo il meglio venga dai non più giovani?