Parte
integrante di quella nuova stirpe sudista di rock'n'roll band che ha rinvigorito
le regole del genere, dai ben noti Drive By Truckers ai misconosciuti Dexateens,
esperienza quest'ultima da cui prende le mosse lo stesso leader Lee Bains III,
The Glory Fires proseguono l'assalto all'arma bianca che aveva caratterizzato
il precedente lavoro discografico, Dereconstructed,
confermando anche la produzione di Tim Kerr in quel di Nashville e calcando la
mano su chitarre brucianti e parole al vetriolo. Per fortuna però scelgono un
briciolo di disciplina in più, evitando il caos primordiale che aveva reso troppo
confuse e concitate le canzoni del predecessore. Youth Detention
(e sottotitolo illuminante al seguito) è ancora un groviglio di punk rock e radici
southern suonate come non ci fosse un domani, una girandola di riff scaraventati
sull'ascoltatore con foga elettrica primitiva, ma nell'insieme riesce a tenere
i fili della storia, a dare più forza al discorso che Lee Bains e i suoi compagni
vogliono trasmettere.
Quest'ultimo è nient'altro che la spietata fotografia
sociale dell'America vista da Birmingham, Alabama. Una gioventù che affronta il
razzismo e l'omofobia, i retaggi di un Sud conservatore e bigotto, il decadimento
della comunità stessa e il fenomeno di una nuova lotta di classe. Sono alcuni
squarci aperti dalle liriche di Lee Bains (che trovate sul sito del gruppo e sono
parte fondamentale per comprendere il dirompente messaggio dell'album), oggi più
che mai convinto di non dover piacere a tutti, di dare in pasto un disco scontroso
e "politico" nel senso più immediato del termine, costruendo un suono e un verbo
che rappresentano la sua visione del Sud e per proprietà transitiva di tutti gli
Stati Uniti, a maggior ragione sotto la controversa presidenza Trump. Lo seguono
a rotta di collo i Glory Fires, nelle chitarre dello sparring partner Eric
Wallace, nel basso di Adam Williamson e nei tamburi di Blake Williamson.
È
il loro baccano potente e onesto a trascinare brani con titoli peretentori, che
sanno di cronaca e condizione personale: Underneath the Sheets of White Noise,
Nail My Feet Down to the Southside of Town
o Commencement Address for the Deindustrialized Dispersion. Ma c'è già
la partenza a mettere la questione in chiaro: due punti esclamativi in Breaking
It Down! e Sweet Disorder!, una
barriera di chitarre che qualche volta rischia di schiacciare la voce di Bains
sullo sfondo e un rock'n'roll che mette insieme il punk riottoso di Clash e Stiff
Little Fingers con gli Stones e il locale southern rock. Non tutto il materiale
ha la stessa efficacia: diciasette brani, seppure spesso concisi e dritti al punto,
sono troppi e ribadiscono l'impeto di Lee Bains & The Glory Fires, ma quando le
cose funzionano, i toni si fanno meno esagitati e dai feedback emergono anche
piano e acustiche, le chitarre si rimpallano l'una con l'altra, e allora è una
festa riuscita per chi cerca sentimento e tensione. Accade con Whitewash
e l'oasi intima di The Picture of a Man, mentre
tutto intorno i pugni tornano ad alzarsi e altrettanto quei maledetti punti esclamativi,
che affondano nella carne viva della questione sudista con I Can Change!,
Tongues of Flame! e il finale liberatorio di Save
My Live!
Nonostante tutta questa veemenza, l'intensità del
canto di Lee Bains non è quella di una chiamata alle armi o peggio di una predica,
ci sono semmai passaggi profondi che vanno scovati con pazienza nel frastuono
generale inscenato dai Glory Fires. La loro energia è così straripante che sembrano
a volte mettersi nei guai da soli.