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Messico e nuvole di
Nicola Gervasini (01/03/2016)
I
vecchi fans dei Green On Red non si scaldino troppo: i "golden years"
di Dan Stuart restano inesorabilmente lontani. Il tocco personale, la capacità
di scrivere la canzone perfetta, quei tesi ironici e taglienti come lame: quello
che lo ha reso uno dei personaggi cardine di tutta la musica sotterranea americana
degli agli ottanta si è perso tra l'inevitabile calo d'ispirazione e un lungo
forzato esilio messicano. E se vogliamo, anche la voce tesa e catramata di un
tempo aggredisce molto meno le orecchie dell'ascoltatore. Eppure il nostro eroe
si è finalmente svegliato dal suo lungo letargo ed è tornato ormai da qualche
anno a rimangiare la polvere della strada rock, con qualche acciacco, ma con un
innegabile rediviva passione.
Nel 2012 il comeback con The
Deliverance of Marlowe Billings, titolo che giocava sul nickname assunto
da lui stesso e sul titolo di un suo libro (definito da Dan Stuart come "un insieme
di parole e merda"), dove aiutato dal nucleo dell'estemporaneo gruppo degli Slummers,
aveva confezionato un disco ancora incerto, ma già comunque vivo e sofferto. Marlowe's
Revenge, titolo che subito si pone come ideale seguito, è però già un'altra
storia. Registrato in Messico con l'aiuto dei Twin Tones (band strumentale simile
ai Sonido Gallo Negro o agli stessi italiani Sacri Cuori) , il nuovo album sembra
uscire dal pantano emozionale del suo predecessore e mira più al sodo, fin dalla
rocciosa Hola Guapa che apre le danze, o la tesa Elena,
che pare un brano del Nikki Sudden dei tempi d'oro. Last
Blue Day ci riporta invece alle pigre e sofferte ballate di un tempo,
giusta introduzione ai sei minuti di Soy Un Hombre,
maestosa ballata elettrica, cattiva nei toni, ma non certo nel testo da amore
disperato in multilingua. E il tono del disco resta decisamente elettrico, anche
nelle successive The Whores Above e All Over You. Clima da Green
On Red in vacanza messicana invece per Name Hog,
brano dove finalmente ritroviamo la sua perfidia lirica, stavolta rivolta contro
i mille principianti che oggi hanno la possibilità di registrare milioni di dischi
inutili credendosi chissà chi.
Un brano forse fin troppo accidioso e presuntuoso
(una traduzione libera potrebbe suonare così: "Ti sto ascoltando, hai qualcosa
da dire? Anche se fai un disco un giorno sì e un giorno no, resti solo un porco
nome, e sappiamo tutti che è vero. Stasera stai giocando a fare Dylan o Waterloo?"),
ma se ai tempi d'oro Dan si permetteva invettive contro i colleghi blasonati (ne
ricordo una davvero feroce contro il Micheal Stipe di Losing My Religion),
figuriamoci come si deve sentire oggi dove il suo nome spesso e volentieri finisce
sommerso in cartelloni popolati da una larga schiera di dilettanti allo sbaraglio.
Più confusa l'altra lunga ballata Zipolote, anche se anche qui il testo
fa a pezzi la giungla umana della West Coast, tra hippies nudi fuori dal tempo
e allucinati surfisti che vengono da Seattle. "Non chiedetemi cosa vuol dire vivere
una buona vita, ho perso così tanti anni ad affilare il coltello" canta nella
conclusiva The Knife, sorta di canto conciliatorio
in cui Dan sembra voler infine abbracciare il suo pubblico fedele dopo tante lotte.
Siamo felici per lui e per noi che lo riascoltiamo così in forma, anche
se resta la nostalgia di quando era veramente, ma veramente incazzato.