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Bowie depression di
Nicola Gervasini (31/03/2016)
La
dannazione eterna dell'IguanaIggy Pop è sempre stata quella di
essere un animale da palcoscenico, forse davvero uno dei più grandi intrattenitori
da palco della storia, ma di non essersi mai trovato veramente a suo agio all'interno
di uno studio di registrazione. La buona riuscita dei suoi album, fin dagli esordi
con gli Stooges, è sempre dipesa dai collaboratori e produttori scelti, ed è per
questo che la sua discografia è così varia nell'essere anche un continuo susseguirsi
di alti e bassi, perché da solo il nome di Iggy Pop suona a garanzia di concerti
perfetti, ma assolutamente non di dischi perfetti. Perfino le sue opere migliori
dipendono comunque dalla firma in sede di produzione, sia il Bowie di The Idiot
o il Malcolm Burn che operò pesantemente su American Caesar (che resta forse ad
oggi la sua opera più completa), o il Don Was che gli fece fare un convincente
viaggio nel mainstream con Brick By Brick.
Non sorprende quindi che, nonostante
venisse da una serie di avventure per nulla memorabili (Skull Ring o i tentativi
di riciclarsi chansonnier alla francese di Preliminaires) o perlomeno discutibili
(le due reunion con gli Stooges, anche se il secondo capitolo già pareva più convincente),
Pop sforni a sorpresa uno dei suoi lavori migliori di sempre ricorrendo ad una
stretta collaborazione. Post Pop Depression è il titolo perfetto
per un disco confezionato più "da" che "con"Josh Homme, mente musicale purtroppo oggi nota a tutti per i fatti tragici
di Parigi 2015 (co-fondatore degli Eagles of Death Metal, non presente però
al Bataclan), ma pur sempre una delle migliori eredità lasciate dal rock degli
anni novanta, quando già con i suoi Kyuss dimostrava un acume artistico non comune.
E non sorprende sentire che in questi nove brani la presenza di Homme è sì evidente
(come anche quella degli altri membri della band Dean Fertita e Matt Helders degli
Arctic Monkeys), ma alla fine tutti gli episodi suonano come dei brani di Iggy
Pop al 100%.
Niente pseudo-punk o scimmiottamenti del passato, i nove
brani mirano al sodo curando testi e arrangiamenti (con uno stile che ricorda
parecchio il John Cale meno intellettualoide di metà anni settanta, vedi Gardenia),
e finendo ad apparire come il testamento del Pop di fine carriera, il suo Blackstar
sfornato fortunatamente senza bisogno di doverci anche lasciare. Poco importa
che qua e là ci siano rimandi a cose già fatte (American
Valhalla è la China Girl del 2000?), ritmi già sentiti (Chocolate
Drops pare rubare il giro nientemeno che ad Another Brick in the Wall dei
Pink Floyd) e qualche furbata delle sue (Vulture), quando però Sunday
o la conclusiva Paraguay già suonano come
dei nuovi classici. E dopo la scomparsa di Bowie e Reed, potrebbe davvero essere
uno dei pochi in grado di sfornarne ancora.