Proprio
quando in parecchi cominciavano a pensare fosse un talento incapace di sbocciare
in modo compiuto, ecco che Ben Glover, cantautore nordirlandese trasferitosi
da tempo a Nashville, ha stupito tutti prima con un Atlantic
dove le sponde dei due oceani s'intrecciavano in un perfetto ibrido elettroacustico,
e poi col progetto al cento per cento americano degli Orphan
Brigade, una delle più convincenti (ri)elaborazioni della poetica delle
radici ascoltate lo scorso anno. Con il nuovo The Emigrant, Glover
compie un ulteriore salto di qualità, cercando di raccontare, dal punto di vista
del radiografo dei sentimenti più che da quello dello storico, l'emigrazione irlandese
verso gli Stati Uniti, quasi una piccola trasposizione sonora delle epopee già
romanzate in film come Gangs Of New York (2002) di Martin Scorsese, in libri come
Brooklyn (2009) di Colm Tóibín o in serie tv come la Boardwalk Empire (2010) targata
HBO.
E lo fa con tatto e intelligenza, da un lato inseguendo l'epica delle
grandi narrazioni e dall'altro senza strafare, anzi mantenendo una misura essenziale,
ancorché ruvida e diretta, nel sovrapporsi di chitarre e percussioni, pianoforti
e cornamuse intessuti per trasmettere all'ascoltatore la solitudine, la fierezza,
la voglia di riscatto, la disperazione e l'ottimismo delle centinaia di migliaia
di uomini e donne partiti verso il più giovane dei continenti intorno alla metà
dell'Ottocento. Sorretto da una voce roca e graffiante, Glover affronta il Ralph
McTell di From Clare To Here e le tradizionali
The Parting Glass e Moonshiner con
la forza e l'energia di un Christy Moore, vero nume tutelare, quest'ultimo (molto
più dei Pogues comunque evocati da una sontuosa, trascinante versione della sempre
toccante And The Band Played Waltzing Matilda), dello svolgimento di The
Emigrant, per intero modellato sulla crudezza espositiva, sul vibrante impegno
civile e sull'irruenza oratoria dell'ex-fondatore di Planxty e Moving Hearts.
Di suo, il titolare aggiunge il lirismo springsteeniano dell'ultima The
Green Glens Of Antrim, il country celtico della melodrammatica Heart
In My Hand (scritta a quattro mani con la collega Mary Gauthier), l'intensa
ballatona à la Bob Dylan di A Song Of Home
e il violino vorticoso dell'elettrizzante, fulminea Dreamers,
Pilgrims, Strangers, antipasto strumentale di quella And The Band
Played Waltzing Matilda dove la rabbia e l'umanità dell'interprete affiorano
in tutta la loro solennità espressiva. Anche se in qualche momento l'ambizione
didattica di Ben Glover sembra prendere il sopravvento, rendendo un po' ingessato
un linguaggio altrimenti fresco e accessibile, The Emigrant, fatte le debite proporzioni,
rappresenta per il suo autore quel che We Shall Overcome - The Seeger Sessions
rappresentò, dieci anni fa, per Bruce Springsteen: un viaggio nel passato da compiere
senza cercare istruzioni, consigli o morali (percepibili, per chi volesse scovarli,
eppure sempre intenti a scorrere sottotraccia) ma accontentandosi di un cuore,
e di una voce, gonfi di emozione.