"Sono
pronto, Mio Signore" recita il chorus di You Want It
Darker. E senza ovviamente augurarci che sia vero, stavolta però un
po' c'è da credere alla propria auto-profezia di morte dell'ultraottantenne Leonard
Cohen. Magari, e lo speriamo, è solo un altro dei suoi scherzi. Già una volta
ci aveva gabbato, quando nel 2004 aveva pubblicato in gran fretta Dear Heather,
quasi un'opera lasciata incompiuta per mancanza di futuro, con un clima generale
da triste commiato che faceva pensare ad un canto del cigno non troppo glorioso,
visto che il disco è indubbiamente il suo peggiore ad oggi. Invece Leonard è rimasto
vivo e vegeto, e con You Want It Darker completa una ideale trilogia
del rapporto con la morte iniziata nel 2012 con Old
Ideas e proseguita con Popular
Problems del 2014.
Che ci siano anche qui grandi testi e brani
memorabili non è una sorpresa (semmai nel 2004 lo fu trovarne troppo pochi), e
neppure che l'appuntamento con la morte sia descritto attraverso una religiosità
tutta sua (Treaty). Non cambiano nemmeno le
melodie, ormai costruite intorno alla sua voce sempre più bassa e cavernosa, ma
la novità, purtroppo forse un po' tardiva, è quella di avere finalmente un produttore
degno del suo nome. E pensare che ce l'aveva in casa uno in grado di mettere in
piedi una strumentazione e un suono che non sembrasse quello di un piano-bar da
matrimonio (più che con Patrick Leonard, che nei due lavori precedenti già aveva
migliorato di molto le cose, me la prendo con le scellerate produzioni di Sharon
Robinson). Posso capire che Cohen fosse un po' restio a contattare grandi produttori,
visto che quando lo fece con Phil Spector, non finì tanto bene (anche se sarebbe
ora di dire che Death Of A Ladies' Man aveva un suono forse troppo pieno rispetto
al quasi vuoto a cui i suoi fan erano abituati con i suoi primi quattro album,
ma di certo non era una schifezza), ma forse poteva anche pensarci prima.
In
ogni caso il figlio Adam non fa niente di particolare: un coro lì (On
The Level), un bell'incipit di chitarra a seguire l'emozionante lettera di
commiato di Leaving The Table, un organo a
segnare If I Didn't Have Your Love, un violino tzigano che duetta con un
mandolino e un wurlitzer in Traveling Light.
Adam non ha bisogno di strabiliare, solo attua sul padre una cura che ci era già
piaciuta in occasione del suo ultimo album We
Go Home del 2014 (recuperatelo che ne vale la pena). Ma visto che la
scrittura del padre è davvero sempre più oscura e lenta, lui almeno gioca sulla
varietà, inventandosi un bellissimo coro muto a far da tappeto a It
Seemed the Better Way invece della solita anonima tastiera. Leonard
da parte sua ci mette sentimento (Steer Your Way si regge sulla sua recitazione)
e una penna che non ha mai perso colpi (anzi, Bob Dylan in una intervista lo ha
omaggiato come grande costruttore di melodie, dichiarando tra l'altro di apprezzare
molto anche la sua produzione più tarda).
E' vero, lo volevamo ancora
più oscuro, e ci ha accontentato. Ma la prossima volta lo vogliamo ancora più
vivo.