Quando
leggerete questa recensione, Skeleton Tree sarà già uscito da molti
giorni, e avrete già letto non una, ma parecchie critiche entusiastiche, con lodi
sperticate al limite di un servizio RAI di Vincenzo Mollica. Giusto: Nick Cave,
dopo un decennio di leggero appannamento, è decisamente tornato in forma, e anche
questo è un disco importante e, a suo modo, bello. Potremmo entrare nel merito
dei singoli brani, ma ripeteremmo discorsi sull'esorcizzazione della morte (quella
di suo figlio), sulla musica come surrogato del lettino dello psicoanalista, e
sul rumore che produce un'anima sventrata dalla tragedia. I dischi di Cave non
sono certo mai stati allegri, da un lato vuoi per la naturale propensione della
sua voce e del suo teatrale cantato al melodramma, dall'altro per la sua visione
della morte come punto focale di ogni vicenda umana.
Ma, toccato nel personale,
Cave si è liberato di tutte le voglie di uscire da quel suono oscuro che ha caratterizzato
la sua altalenante produzione degli anni zero, e ha composto otto brani ancora
più lenti e tetri del precedente Push
The Sky Away. Jesus Alone è un
singolo decisamente anti-hit, quasi uno spoken-blues, con uno uso di tastiere
e sintetizzatori maggiore del solito (Warren Ellis è il vero Deus ex machina
produttivo), sui quali poggia anche la successiva Rings Of Saturn. Degli
otto brani, alcuni sono funzionali all'idea di fare un disco che sia una vera
e propria marcia funebre (Magneto e Anthrocene sono semplici recitati
su tappeto sonoro), altri invece dimostrano un autore comunque in stato di grazia
(Girl In Amber, I
Need You). Per quanto resterà un disco importante nella sua discografia,
quando passerà lo shock emotivo di un album così "pesante", noteremo magari che
il precedente era più vario e meglio strutturato, e che il capolavoro Cave lo
aveva saputo fare con "Boatman's Call", dove affrontava gli stessi temi
curando molto anche la costruzione di vere e proprie canzoni, e di quelle ci ricorderemo
sempre tra qualche anno, non di queste.
Ma un'altra discussione che lancerei
è capire come mai gli unici due album che sembrano aver messo d'accordo tutti
nel 2016 facendo gridare al capolavoro (questo e Blackstar di David Bowie), siano
dischi egualmente lugubri e dedicati alla morte, accomunati da una caparbietà
nel crogiolarsi nel dolore da far sembrare "Magic And Loss" di Lou Reed
un party-record. Sembra quasi che in assenza di idee nuove, il rock classico possa
trovare alti livelli solo scendendo negli inferi del proprio male, e se questo
almeno ci garantisce sul fatto che ancora qualcosa di importante ci sia da dire,
dall'altro ci fa domandare: visto che ai tempi di Elvis tutto era nato per parlare
di ragazze, sesso e automobili, ci sarà mai qualcuno ancora in grado di farci
gridare al miracolo con una canzone che semplicemente vuole far ballare e venir
voglia di scopare?