Avvistati
sul finire dello scorso inverno, nella data milanese del loro tour europeo, Chris
Robinson e la sua "Fratellanza" avevano dato prova di una naturale propensione
alla jam strumentale, al gesto rock libero e settantesco, volutamente fuori tempo
e fuori moda nei suoni e negli atteggiamenti. Un percorso che fin dall'esordio,
Big Moon Ritual,
sembrava volersi svincolare dalla matrice più sudista e impetuosa del suono Black
Crowes, per abbracciare una forma di musica neo-hippie che evocasse le fragranze
della California di una lontana stagione. Con un cambio improvviso dell'intera
sezione ritmica, tra cui l'ingresso del nuovo batterista Tony Leone (già con Ollabelle
e Levon Helm) e una serie di sedute di registrazione tenutesi nella natura selvaggia
a ridosso del Pacifico californiano, Anyway You Love, We Know How You Feel
è un disco che anche nelle quattro mura dello studio ribadisce la direzione
impressa da Chris Robinson insieme all'anima gemella Neal Casal.
Brani
spesso dalla durata superiore alla media, come è lecito aspettarsi, già pronti
per un'ulteriore espansione dal vivo e una miscela di morbida psichedelia, accese
ritmiche funk, chitarre combattute fra pulsioni sudiste e vagheggiamenti "deadiani",
nonché fughe progressive nell'uso del synth da parte di Adam MacDougall, elemento
quest'ultimo che anche sul palco aveva ribadito il suo ruolo centrale. L'esito
staziona a metà fra i primi passi della band e la svolta più "cosmica" del precedente
Phosphorescent
Harvest, album in verità ambizioso e pasticciato. In un'improbabile
commistione fra i Grateful Dead più onirici e il funky pulsante di Stevie Wonder,
con qualche parentesi agreste debitrice della Band, questi otto episodi gigioneggiano
fra spunti musicali solo abbozzati, bisognosi dell'esibizione live per maturare,
e qualche discreta melodia che finisce in un vicolo cieco. Non si capirebbero
altrimenti le presenze di inutili strumentali come Give Us Back Our Eleven
Days, tra scatti psichedelici e progressive rock, oppure svaghi funky e giravolte
chitarristiche, in adorazione di mastro Jerry Garcia, in Narcissus
Soaking Wet e Forever As the Moon.
I punti di forza restano la totale libertà espressiva, l'estro da jam
band proiettata quasi per uno scherzo del tempo nel 2016, ma la debolezza continua
ad essere rappresentata da canzoni un po' inconsistenti, dando l'impressione di
non avere una direzione precisa. Ondivaga per vocazione, la Chris Robinson
Brotherhood ci invita ad un "relax your mind" in Oak
Apple Day, una delle più deadiane della raccolta, avvalorando l'aspetto
da vecchi hippie con barbe ingrigite sulla copertina (quanto meno Chris e Neal,
i più segnati dalle lunghe tribolazioni del music business), ma trova davvero
un paio di melodie apprezzabili soltanto quando predilige i toni da ballata country
agrodolce e pastorale. Per esempio in Some Gardens Green, figlia del modello
Appaloosa, brano dei Crowes riproposto in passato anche dalla CRB, e in California
Hymn, finale quest'ultimo sulle tracce di Gram Parsons e The Band,
o ancora quando accenna un timido furore sudista nel boogie di Leave My Guitar
Alone, cori in odore doo wop e un bel lavoro alla solista di Neal Casal, sempre
più misurato e maturo. Non abbastanza però per tenere insieme un sound
sfilacciato, a cui servirebbe un briciolo di mordente in più.