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League di
Nicola Gervasini (09/11/2015)
Esistono
buoni artisti, ed esistono grandi artisti. I primi sono tantissimi, sempre di
più, e forse ormai raggiungere un livello base per produrre un disco "piacevole"
o "ascoltabile" è qualcosa davvero alla portata di molti. I "grandi" artisti però
ci sono davvero, e ci sono ancora. Sono quelli che alla normalità di una rock/folk/indie-song
che sia, aggiungono quel qualcosa che è solo loro, sia questo un marchio di fabbrica
inconfondibile, o il semplice peso della propria personalità. Sono gli unici ancora
in grado di sorprenderci insomma. Josh Ritter, ad esempio, è da anni che
non sbaglia un disco, ma è sempre rimasto un po' sul confine tra l'essere un bravo
cantautore o l'essere un caposcuola. Sermon On The Rocks però arriva
a dirci che è forse l'ora di promuoverlo a pieni voti alla serie A, non perché
sia per forza questo il suo album migliore (la lotta per la palma è davvero feroce),
ma se non altro per l'invidiabile continuità a livelli eccelsi, visto che all'alba
dell'ottavo album in carriera la sua qualità è ancora in continua crescita, e
non è davvero cosa da molti.
Quello che ce lo fa applaudire un po' di
più è la larga visione d'insieme che Ritter ha maturato nel corso del tempo, che
lo rende uno degli artisti più eclettici e capaci di miscelare diversi elementi,
senza mai dare l'idea che stia solo girando alla disperata ricerca di uno stile.
E così se Birds On The Meadow potrebbe far
pensare ad una svolta modernista con il suo martellante ritmo pop, le chitarre
hillbilly e l'incedere da fast-gospel di Young Moses,
oltre a far capire da chi hanno imparato a confezionare grandi canzoni gente come
Amos Lee e Jonathan Wilson, mettono in evidenza una naturalezza nel cogliere la
melodia e il ritmo giusto da artista scafato. Non ci si annoia mai, né quando
il suo timido folk degli esordi si ripresenta in una Henrietta, Indiana
che ha il sapore della sua produzione dei primi anni 2000, sia quando confeziona
un saltellante quanto irresistibile singolo come Gettin
Ready To Get Down, tour de force di parole profuse ad alta velocità
tra chitarre caraibiche e batterie pulsanti. E non ha paura neanche di concedersi
qualche arrangiamento un po' furbo come Seeing Me 'Round, giri melodici
già sentiti in almeno 20 canzoni di Dylan e 1000 di seguaci come Where The
Night Goes, ballatine pop-folk alla Lovin Spoonful come Cumberland,
insomma tutto l'armamentario base del folksinger moderno.
Ma quando poi
arrivano i cinque minuti e passa di Homecoming,
emozionante crescendo di suoni, ritmi e melodie, capisci che la maturazione è
giunta al massimo. Resta il tempo per un'altra intensa soul ballad (The Stone),
il puro roots-rock di A Big Enough Sky, l'esperimento
alla Wilco di Lightouse Fire e una My Man on The Horse che potrebbe
tranquillamente chiudere un film western di epoca crepuscolare alla Sam Packinpah.
Il bello di Ritter è che sembra sempre non fare mai nulla di speciale, eppure
ogni volta esci da un suo disco con la voglia di riascoltarlo e di scoprire qualcosa
di nuovo. E questa è caratteristica solo dei grandi.