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Mountain man (you win again) di
Gianfranco Callieri (07/04/2015)
Dieci dischi in vent'anni non sono certo un'esagerazione, ma se dopo un esordio
fulminante la loro qualità va declinando un capitolo dopo l'altro, allora possono
anche risultare troppi. Se poi, inoltre, a seguito di alcune prove magari non
proprio brillantissime (sebbene mai del tutto irricevibili) sotto il profilo della
fantasia, spunta l'idea di rileggere il proprio catalogo (peraltro ignoto ai più)
per celebrare l'anniversario d'inizio attività, be', in tal caso il sospetto di
trovarsi di fronte a un tentativo più o meno dichiarato di mascherare un momentaneo
difetto di creatività si fa abbastanza serio. E invece, per il sommo stupore di
tutti gli uomini di poca fede (compreso chi vi scrive), The RCA Sessions,
sedici canzoni registrate ex-novo nel leggendario RCA Studio B di Nashville allo
scopo di ripercorrere quanto pubblicato tra il 1994 e il 2014, è il miglior disco
di Malcolm Holcombe dai tempi dell'indimenticabile A Hundred Lies (1999),
nonché uno dei più riusciti manuali di musica americana da diverse stagioni a
questa parte.
Grazie al supporto di una band dei sogni costituita dal
fidato Jared Tyler (sei corde elettriche, dobro, lap-steel), da Dave Roe (contrabbasso),
Tammy Rogers (violino e mandolino) e Ken Coomer (batteria e percussioni), Holcombe
è infatti riuscito a spazzar via completamente quel filo di piattezza e ripetitività
serpeggianti negli ultimi lavori per sostituirli con una parata di atmosfere,
visioni e racconti il cui filo conduttore altri non è se non il suo stile unico,
sempre sospeso tra incubo dark e dolcezza tradizionalista, allucinazioni bluesy
e ruvide ballate folk. Al centro di tutto c'è ancora una volta la sua voce inconfondibile
da uomo-lupo dei boschi, la sua gola bruciata da liquori e tabacco, di nuovo splendida
nel citare i nomi dei giallisti Ellery Queen e John D. MacDonald durante l'iniziale
Who Carried You, ruggente di catrame nell'enfasi
rockista di una tirata I Call The Shots, gracchiante,
cacofonica e bestiale nei sussulti punk-blues di una sconvolta To
Drink The Rain. Ma essenziale, e non poteva essere altrimenti, è anche,
oltre al supporto amichevole degli ospiti, tutti bravissimi a cominciare da una
solenne Maura O'Connell (ex-cantante dei De Dannan, qui alle prese con
un'epica traduzione irlandese di A Far Cry From Here) e senza dimenticare
Siobhan Maher-Kennedy (deliziosa nell'armonizzare la cantilena old-timey di My
Ol' Radio) e l'armonicista Kirk "Jelly Roll" Johnson (cui si debbono le trasformazioni
di Mouth Harp Man e Mister In Morgantown
in veri e propri tour-de-force di blues sfigurato e fangoso), la fluidità esecutiva
della backing-band, talmente elegante e misurata da mettere in atto un reale prontuario
sull'arte di arrangiare in chiave rock gli scarni ululati acustici del titolare.
Nelle loro mani, il country di Down The River, l'elegia zingaresca
di Pitiful Blues, il torrido blues di Doncha
Miss That Water e il folk anfetaminico di Early Mornin'
acquistano nuovi colori e nuova vitalità. E nondimeno, quanto riescono a fare
nella rivisitazione country-rock di Goin' Home
(stava su Not Forgotten del 2007), piazzando un magnifico tappeto elettroacustico
infarcito di slide, violini e chitarre steel sotto un canto che si apre alla purezza
del gospel e ricorda l'energia e lo slancio del primo alt.country, ha del miracoloso
a dir poco. L'altro miracolo, a questo punto, lo aspettiamo da Holcombe stesso:
dopo averci dimostrato come la musica (tutta, non solo la sua) sappia ancora aprirsi
a traiettorie di rigenerazione imprevedibili, ora, non paghi di tutto il ben di
dio già proposto, vogliamo le sue canzoni più belle. Le prossime.