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neo traditional folk di
Yuri Susanna (02/03/2015)
Un
esordio come non se ne sentivano da tempo. La materia è quella dell'Americana
nella sua natura old-fashioned, canzoni nate un secolo fa nei campi di cotone,
sui carri dei minstrel show, nelle baracche sugli Appalachi. Jake Xerxes Fussell
è un ragazzone del Nord Carolina dalla faccia sincera (e dal middle name improbabile),
tenuto a mollo fin da bambino nella cultura del Sud-est degli Stati Uniti. Il
padre, fotografo, antropologo e musicologo, se lo portava dietro nei suoi tour
esplorativi al fianco del field recorder George Mitchell (lo scopritore di R.L.
Burnside, tra gli altri) e in questi viaggi è sbocciata nel giovane Jake un'evidente
fascinazione per il piedmont blues, la musica del Delta e le work song di un'America
virata seppia. Un idioma popolare che Fussell ha imparato a declinare con semplicità
e convinzione, ben prima di essere preso sotto l'ala protettiva di William
Tyler - uno che si sta ritagliando uno spazio davvero importante nella scena
Americana del decennio -, che lo ha accompagnato a Nashville a registrare un disco
a fianco di un terzetto di musicisti locali intelligentemente eclettici nella
composizione: Chris Scruggs e Brian Kotzur vengono dall'alt.country (Bonnie Prince
Billy, Silver Jews...), mentre il fiddle di Hoot Hester è stato al servizio niente
meno che di Bill Monroe.
Ne risulta una lezione di stile (e sostanza)
che scalda il cuore: l'approccio alla materia folk è una questione di spirito,
non di forma. Fussell scavalca con agio tutta la scena dei neo-primitivisti (ai
quali è per tanti aspetti affine, vedi l'amore per l'eredità pre-elettrica e pre-war,
sia bianca sia nera) alleggerendone e semplificandone la formula. Non un disco
di brani originali proposti con il rigore scarno e severo della musica preguerra,
ma una manciata di traditional riesumati dalle pagine ingiallite del grande libro
del folk americano, rivestiti di abiti comodi, accattivanti anche in un milieu
contemporaneo. Lo stile chitarristico di Fussell discende dal finger picking di
Blind Blake ma non si perita di suonare modernamente fluido, piacevole e orecchiabile,
con delle venature "pop" - se ci passate il termine - che lo situano agli antipodi
della maggior parte dei contemporanei che pescano dalle stesse radici (James Blackshaw,
Glenn Jones, il compianto Jack Rose). Certo, quello che guadagna in affabilità,
lo perde in spigoli e contrasti: è musica che manca di un "lato oscuro", ma non
è una mancanza che si nota. Vengono in mente certi eroi minori del folk revival
dei Sessanta (gente come Dave Van Ronk), piuttosto che i soliti John Fahey e Robbie
Basho. Del resto, quando si riesce a trasformare brani tradizionali dimenticati
come Let Me Lose o Pork
and Beans in delle specie di folk-pop per cui i Decemberists potrebbero
uccidere, si può essere soddisfatti del risultato.
Per non parlare dell'aerea
levità di All in Down and Out, dell'odore
di cortile che emana da Rabbit on a Log, del
caracollare di Push Boat e della ragnatela di arpeggi che avviluppa Man
at the Mill. E dell'ipnotico procedere per singulti di Raggy
Levy, scelta qualche mese fa come sorta di "singolo" a preannunciare
il disco dalla sempre più meritoria Paradise of Bachelor (Hiss Golden Messenger,
Steve Gunn, Elephant Micah). E ci fermiamo qui, se no le citiamo tutte. Divertitevi
voi ad andare a scoprire l'origine delle canzoni: nel retro di copertina del disco
sono indicate le versioni più antiche delle composizioni, il punto di partenza
per gli arrangiamenti - mai banali, senza essere complicati - di Fussell. Si tratta
spesso di nomi talmente oscuri da far apparire gli artisti raccolti da Harry Smith
nella sua epocale antologia come delle popstar, al confronto. "All songs are traditional",
è scritto in evidenza in fondo ai credits. Ma non sembra: sembrano scritte ieri.
E' un complimento, ed è l'essenza stessa di quella che chiamiamo folk music.