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my kind of blues di
Fabio Cerbone (20/02/2015)
Recidivo peggio di qualsiasi fuorilegge abbia mai descritto nelle sue canzoni,
Steve Earle è reduce dal suo settimo divorzio (con la cantautrice Allison
Moorer) e per esorcizzare l'ennesima storia d'amore naufragata nel fallimento,
non ha trovato soluzione migliore che incidere un disco di blues. Cura per le
ferite dell'anima dunque, quando intona la supllica Baby Baby Baby (Baby)
o da impenitente faccia tosta recita You're The Best
Lover That I Ever Had (a quante lo avrà ripetuto?). Il blues come luogo
topico dove esporre i propri lamenti (Better Off Alone
dichiara ad un certo punto) e le pene di un uomo, ben lontano però dalle sofferenze
dei mostri sacri del genere e più prosaicamente attaccato a questioni di assegni
familiari e alimenti, che il nostro Steve deve coprire con tour costanti. Nasce
esattamente sulla strada Terraplane, omaggio fin dal titolo alla
famigerata Terraplane Blues di Robert Johnson e all'omonimo modello di automobile
(raffigurata nel disegno di copertina) prodotta negli anni Trenta.
Undici
episodi composti durante le esibizioni a tema acustico, passate anche per i nostri
lidi durante la scorsa estate, e catturate con i Dukes (Kelly Looney, Will Rigby
e la coppia Chris Masterson e Eleanor Whitmore dei Mastersons) in presa diretta,
presso l'House of Blues Studio D di Nashville. Canzoni che lo hanno riportato
all'essenza giovanile, tra la polvere di Houston, quando lui il blues (o la vita
stessa?) lo apprendeva per vie traverse da Townes van Zandt e Guy Clark, e questi
ultimi a loro volta lo avevano visto in diretta dalle mani di Lightnin' Hopkins
e Mance Lipscomb, giganti del country blues texano che impartivano lezioni di
songwriting ai pivelli bianchi in adorazione. Terraplane attinge a quella fonte,
ma ripassa il linguaggio secondo le coordinate dello Steve Earle maturo di questi
anni: reduce da due dischi tanto importanti quanto snobbati (con il picco di espressività
di The
Low Highway), summa della sua arte di storyteller, il suo approccio
alla materia blues è infatti denso e limaccioso, arrovellato intorno a quella
splendida voce impastata, adesso più che mai invecchiata come un whisky in botte.
Dunque nessun cedimento ad una sorta di scolastico tributo, ma un po'
come accadde in "The Mountain", allora alle prese con la mitologia bluegrass,
l'atteggiamento di Earle non è di ossequio, semmai di immersione e interpretazione.
Il risultato non possiede forse lo stesso vigore del citato The Mountain (anche
perché al tempo era all'apice della sua ispirazione), ma negli strali elettrici
della coclusiva King of the Blues o nel racconto
da predicatore di The Tennessee Kid si affacciano
momenti di profonda tensione, dove la vera protagonista è appunto quella voce
che ansima, gratta, ruggisce e quel senso di verità che declama. Da altre parti
si fa largo un briciolo di giustificabile maniera (il violino e il sound retrò
che avovlge Ain't Nobody's Daddy Now e Baby's Just As Mean As Me,
quest'ultima in duetto con Eleanor Whitmore) e più semplicemente la voglia di
mordere il freno del rock'n'roll (il roots rock sfrontato di Go
Go Boots Are Back). Nulla che faccia sembrare Terraplane un compito
buttato via per esigenze contrattuali: Steve Earle non ne sarebbe capace, nonostante
tutti i divorzi messi sul conto spese.