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big rock music di
Fabio Cerbone (01/04/2014)
Risultato
di un anno e mezzo di lavoro, viaggio partito dalla camera-studio di Adam Granduciel
a Philadelphia e dipanatosi attraverso otto diversi studi di registrazione e la
bellezza di quattro diversi stati americani, Lost in the Dream rappresenta
un po' la sintesi della "grandeur" con cui The War on Drugs immaginano
(e suonano) la loro musica. Un sentiero tracciato inesorabilmente nel 2011 con
Slave Ambient, il disco della rivelazione internazionale ed oggi confermato da
questi dieci episodi di "space rock" dilatato, dalla tensione epica
e intriso di chiare reminiscenze post punk anni 80. Solitamente ricordati sbrigativamente
come prima palestra per il chitarrista Kurt Vile, che lasciò il gruppo agli esordi
per dedicarsi alla carriera solista, The War on Drugs hanno attraversato cambiamenti
repentini di formazione e una paziente costruzione del proprio suono, che oggi
è tutto nella voce (e nelle chitarre) del leader Granduciel, ma si offre volentieri
alle stratificazioni delle tastiere di Robbie Bennett, elemento essenziale per
forgiare quel dedalo sonoro così espanso e magniloquente che avvolge buona parte
dei loro brani.
Qualcuno - soprattutto quella stampa inglese che li ha
accolti a braccia aperte - ha parlato a più riprese di una rielaborazione in chiave
attuale (leggasi fra nuvole di nuova psichedelia e chiari elementi indie rock)
della classicità di Bob Dylan, Neil Young e Bruce Springsteen: non vi è dubbio
che sotto le ceneri covi una scrittura dal passo antico, che la malinconia agrodolce
di Suffering possieda i colori autunnali
del loner canadese, che l'incedere rock quadrato eppure sognante di Burning
sia quasi una rievocazione del Jersey sound all'indomani della sua conquista mondiale
con Born in the USA, che infine Eyes to the Wind o
la stessa Lost in the Dream portino un po' le stimmate del discorso folk
rock dylaniano. Eppure The War on Drugs non sono certamente ascrivibili alla selva
di nuovi tradizionalisti, né tanto meno a qualche frangia "illuminata" dell'Americana
(anche se stranamente il termine è balzato alla ribalta più di una volta a sproposito
per descriverli...): qui ci sono semmai sentori di quella che Mike Scott (Waterboys)
chiamava un tempo "big music", un riferimento che non nasce a caso, ma che si
lega indissolubilmente al modo di concepire e arrangiare gli episodi di Lost in
the Dream con quella indimenticata stagione musicale di metà anni 80.
A
cominciare dai quasi nove minuti dell'apripista Under
the Pressure, un battito freddo su un manto di chitarre, sax e organi,
finendo poi nei sette abbondanti di una An Ocean in Between
the Waves che pare impersonificare il secondo tempo della prima: superfici
di dilatato, morbido rock psichedelico che mettono insieme le immense distese
australiane dei mai dimenticati Church e Triffids proprio con i citati Waterboys
(quanto meno quelli di This is the Sea). In fondo The War on Drugs sembrano in
qualche modo intepretare sempre la stessa canzone (da Red Eyes e Disappearing,
scegliendo di accelerare o rallentare il battito a seconda dell'estro), mantenendo
simili coordinate ma differenti mete, segnale di un'identità forte che
sta dietro un disco come Lost in the Dream: è la caratteristica
delle band che hanno un suono in testa e lo realizzano con coerenza.