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family affair di
Fabio Cerbone (23/09/2014)
Jeff
Tweedy non è solito affrontare le sfide seguendo la strada più scontata: lo
dimostra la carriera ventennale dei Wilco e un approccio alla canzone che ha spesso
mediato fra sperimentazione e semplicità, attitudine pop e tradizione. La notizia
di un suo disco solista dunque portava con sé l'incognita di un lavoro fuori dal
guscio protettivo della band. Sukierae (prununciato sue-key-ray)
dunque si è trasformato presto in qualcosa di singolare: un disco solista che
in realtà diventa l'opera di un duo, con il figlio diciottenne Spencer
sempre più coinvolto nel progetto, partner ideale alla batteria. In seconda battuta
gli interventi vocali di Jess Wolfe e Holly Laessig della band Lucius e infine
qualche abbellimento di Scott McCaughey (Young Fresh Fellows, Minus 5) alle tastiere.
Un album inoltre che supera l'idea delle demo acustiche - oltre novanta tra cui
scegliere, racconta lo stesso Jeff Tweedy - e di una forma più spartana per avvicinarsi
alla follia creativa degli stessi Wilco, salvo poi michiare ulteriormente le carte
inserendo cinque brani composti all'ultimo momento in studio e l'idea ambiziosa
di un doppio album che dividesse le facciate a seconda dell'umore dei brani.
Il
risultato di questa schizofrenia è Sukierae, nome che prende spunto dalla moglie
di Tweedy, Sue, la cui grave malattia recentemente affrontata e l'affetto stesso
dei suoi uomini, padre e figlio, sembrano infondere buona parte del materiale:
un miscuglio di colpi di genio e inconsistenti passaggi a vuoto, rendendo sempre
più chiara la necessità di una scrematura. Sarebbe stato un ottimo singolo, una
decina di canzoni, calibrate tra la frenesia della prima parte e il mood più rilfessivo
della seconda, così invece tutto tende a disperdersi fra luci (poche) e ombre
(troppe). Il primo disco è dunque il più stravagante ed elettrico, tra sbilenche
melodie in High as Hello e frammenti rock
degni della storia recente dei Wilco in World Away
(uno dei momenti più esaltanti, nel convulso finale chitarristico che sembra figlio
della lezione dell'amico Nels Cline). Anche l'apporto del figlio Spencer appare
più incisivo in questa facciata: la scomposta Diamond
Light pt.1, Slow Love, l'immancabile caramella pop di casa in
Low Key, dai sapori beatlesiani, episodi
alternati a docili ballate come Wait for Love e persino una I'll
Sing It la cui gestazione pare risalga ai tempi di Being There.
Il
songwriting di Jeff Tweedy si disunisce ancora in quelle schegge di pensieri,
a volte enigmatici, altre più confessionali, salvo trovare poi una ricomposizione
nella seconda parte. È qui, come anticipato, che Sukierae si sfalda non poco,
fino a sfiorare una svenevole e pericolosa noia. Restano pur sempre venti canzoni
e settantadue minuti di musica, le quali, passate le delicatezze folk rock di
Flowering e il dolce dondolio di una irresistibile Summer
Noon, si dissolvono in spunti abbozzati, in una generale, dimessa atmosfera
che punta tutto sui sussurri del piano, sul garbo delle chitarre dal passo country
folk in New Moon, Where my Love e Fake Fur Coat, rischiando
purtroppo di evocare a gran voce l'intervento strumentale di quei musicisti -
Jay Bennett, Nels Cline, Glen Kotche - che negli anni hanno impresso una svolta
alle melodie Tweedy, uno spunto acustico, una ballata folk che virava d'improvviso
verso qualcosa di inaspettato, che qui non ritroviamo.