John Mellencamp
Plain Spoken
[
Republic/ Universal
2014]

www.mellencamp.com

File Under: american folksinger

di Fabio Cerbone (24/09/2014)

John Mellencamp è entrato per la prima volta in uno studio di registrazione nel 1976, era poco più di un adolescente: non sembra vero, confrontando la sua forma attuale con quella di altri colleghi più "acciaccati" di lui a livello artistico. La differenza sostanziale è che alla soglia dei quarant'anni di carriera la sua musica ha deciso di non inseguire il tempo, ma lo ha scavalcato, rendendosi così un classico. Eravamo convinti che No Better than This potesse in qualche modo chiudere un ciclo, inaugurato con la collaborazione di T-Bone Burnett (oggi ancora produttore esecutivo del progetto) e quel sound asciutto, folkie, che finiva addirittura per omaggiare l'epopea della Sun records e del vecchio blues. Non è esattamente così: Plain Spoken, seppure renda la ricetta più vivace del suo predecessore, è qui a dimostrare la svolta profonda e forse definitiva compiuta dal Mellencamp autore di questi anni.

Se cercate ancora il rocker fiero di provincia, se desiderate un'altra Small Town e le sporche chitarre alzate al cielo, mettetevi il cuore in pace. John Mellencamp è oggi una delle voci più scure e schiette (mai titolo del disco fu più esplicativo…) del songwriting americano e per questo una delle più credibili e costanti nei risultati. Anche il timbro si è fatto di volta in volta più rauco: Plain Spoken parla dell'uomo e dei suoi errori, dei fantasmi che si è lasciato alle spalle, della vita che passa, della mortalità delle cose. Troubled Man appunto, come canta nella simbolica introduzione, ballata che sintetizza le ambientazioni acustiche, cadenzate eppure cristalline dell'intero disco. Violino e pennate leggere, ritmica sorniona per un autore che non ha paura di affrontare i temi della saggezza, della ricerca di Dio (il capolavoro Sometimes There's God, sofferta preghiera che rotola su un tappeto di rarefatti suoni roots). Lui dice di cantare per la sua generazione, di non pensare più a scrivere una hit a tutti i costi (certo, ora se lo può permettere), di rivolgersi insomma alla parte adulta del pubblico, forse consapevole che gli anni dell'innocenza del rock'n'roll sono passati e con loro anche la centralità di questa musica.

Ecco dunque il clima affabile, domestico di queste registrazioni, dove il lavoro delle chitarre di Mike Wanchic e Andy York è sempre minimale nella resa eppure cesellato nei dettagli, dove non serve mai alzare la voce, semmai lasciarsi trasportare dal sound solitario di The Isolation of Mister, dalla lucentezza agreste di The Comany of Cowards, contorniata da acustiche e mandolino, dai riverberi country noir di una Tears in Vain che pare indagare le complicate relazioni personali nella vita di John. Il sentiero inesorabile è quello indicato in Life Death Love and Freedom, lavoro a questo punto più che mai centrale nella trasformazione di Mellencamp. Plain Spoken possiede un'alternanza maggiore fra luci e ombre, anche se un impatto minore, sollevando la polvere della speranza in Blue Charlotte, nell'immancabile populismo di Freedom of Speech, inseguendo la luce in The Courtesy of Kings, languido folk rock che ha le fattezze di un vecchio traditional ripescato dal tempo perduto, prima di chiudere con il lamento sociale di un crudo country blues dagli accesi toni elettrici. In Lawless Time Mellencamp denuncia infatti sconsolato you can't trust a neighbor/husband or wife/you can't trust the police with the guns or their knives e i recenti fatti della comunità di Ferguson nel Missouri sembrano addensare tutte le nubi intorno alle sue parole. Ancora una grande dimostrazione di integrità artistica.


   


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