Leonard Cohen
Popular Problems
[
Columbia/ Sony
2014]

www.leonardcohen.com

File Under: The voice, in his tower of song

di Gianfranco Callieri (29/09/2014)

I "problemi comuni" trattati da Leonard Cohen nelle nove canzoni di Popular Problems riguardano le medesime "vecchie idee" del disco precedente (Old Ideas), il primo di brani inediti dai tempi non recentissimi di Dear Heather (2004): parole, ricordi e riflessioni accavallate, ma espresse nel modo più elementare possibile, ricorrendo a strofe di poche sillabe, su temi come amore, invecchiamento, solitudine. Problemi comuni, appunto, di quelli su cui chiunque, persino il più recluso degli eremiti, si sarà almeno una volta trovato a riflettere. Cohen, in pratica (ironia della sorte) tornato a incidere e a esibirsi dal vivo, dopo un lungo periodo di ritiro spirituale, a causa dell'ingente quantitativo (si parlò, all'epoca, di una somma vicina ai 5 milioni di dollari) del suo patrimonio personale sperperato dalla ex-manager Kelley Lynch, vi si dedica con stile veterotestamentario, icastico, privo di qualsiasi affettazione, come se preferisse correre il rischio di risultare banale, o persino approssimativo, anziché ermetico o artificioso.

In tal senso, la traccia più "scivolosa" di Popular Problems sembra essere la numero cinque, Nevermind, peraltro una di quelle meno ricercate sotto il profilo musicale: linea di basso semplicissima, nonché eseguita da una tastiera, e drum-beat ipnotico, e anch'esso elementare, cori femminili a sdraiarsi sull'eleganza genericamente soul degli archi, un'altra oratrice, di nuovo una donna, a ripetere "salam" (pace, in arabo), mentre la voce rauca, profonda e quasi catacombale di Cohen canta, ma sarebbe meglio dire scandisce, versi quali "Ho dovuto lasciare / La mia vita alle spalle / Ho scavato tombe / Che non troverai mai". Essendo l'artista ebreo, c'è da supporre la critica si sbizzarrirà nell'ermeneutica del testo, magari scovandoci riferimenti al sempiterno conflitto israelo-palestinese in realtà piuttosto vaghi, ma di fatto in Popular Problems, nonostante la compassione post-Katrina dedicata all'omonima città della Louisiana nel solenne gospel di Samson In New Orleans, non c'è alcuna vera attinenza con l'attualità, perché le meditazioni di Cohen, da pochi giorni ottantenne, toccano questioni eterne. Il dolore universale di Almost Like The Blues ("Ho lasciato che il mio cuore congelasse / Per evitarne la decomposizione"), il rimpianto per i sentimenti sfioriti (Did I Ever Love You), il continuo incombere di violenza e devastazioni (A Street), la speranza di un nuovo amore (You Got Me Singing).

Anche in questo caso, la produzione, più che impercettibile, inesistente, di Patrick Leonard (corresponsabile della scrittura di 7 brani su 9), consente a Cohen di rilassarsi all'interno di un ambiente sonoro dove chitarre, qualche violino, ritagli di fiati (particolarmente azzeccati quelli di una My Oh My dalla deliziosa fisionomia rootsy-soul) e timidi filamenti d'organo assolvono soprattutto al compito di non distrarre l'ascoltatore dal principale strumento qui impiegato, ossia la voce del titolare, ormai non più in grado di cantare (diciamolo pure) e quindi costretta a esprimersi in una serie di recitativi, eppure, nonostante questo, talmente caratteristica, nel suo ruvido intreccio di zolfo, nostalgia, raucedine e fascino indistruttibile ("La voce", scriveva Tom Robbins, "di un penitente, di un rabbino, una crosta di pane azzimo vocale abbrustolito - cosparsa di fumo e arguzia sovversiva"), da somigliare ancora al migliore dei megafoni possibili per enunciare, con saggezza e magnetismo, verità dal sapore biblico. Certo, la delicata malinconia folkie di You Got Me Singing, il country tenue e nondimeno sofferto di Did I Ever Love You, il blues annerito dell'iniziale Slow o lo spiritual rigoroso di Born In Chains, tutte benedette dal dono di una naturalezza senza tempo, continuano a dire di un talento compositivo anche adesso vitale. Ma non è questo il punto. Quanto conta, in Popular Problems, è il ritmo di una vita intera finalmente sciolto nel sussurro caldo della voce di Leonard Cohen: una voce come una stanza in penombra, nei piani alti della torre della canzone, una stanza in cui sistemarsi, riposarsi, specchiarsi e infine, forse, comprendersi.


   


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