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crossing the blues again di
Fabio Cerbone (29/07/2014)
Il
Wall Street Journal lo ha recentemente definito "un instancabile songwriter".
Come dargli torno: a 61 anni suonati, con ventidue album sul groppone, John
Hiatt non ha intenzione di cedere di un millimetro dall'arte del songwriting.
Con tutti i pro e i contro di una simile scelta: insomma, nessun precoce ritiro
dalle scene o un dosaggio più misurato delle proprie uscite, semmai una necessità
musicale che lo fa ritornare sul luogo del delitto più o meno una volta ogni due
anni (persino con frequenze più ristrette), con risultati altalenanti purtroppo,
una buona qualità intervallata da tanto mestiere, ma anche con la voglia costante
di misurarsi con le sue storie. Dunque, dopo la positiva accoppiata di Dirty Jeans
and Mudslide Hymns e Mystic Pinball, dischi sempre targati New West in cui Hiatt
percorreva il battito sudista e la ballate rock dai sapori country che lo avevano
sempre contraddistinto, Terms of My Surrender chiude idealmente
questo trittico e questa stagione mediamente ispirata (seppure lontana, per tante
ragioni, dalla brillantezza degli anni migliori) con un ritorno al blues e alle
radici, in qualche modo riprendendo il discorso del piccolo capolavoro Crossing
Muddy Waters.
Ci sono evidenti punti di contatto stilistici con quel disco,
anche se la produzione con Doug Lancio e le dinamiche sviluppate insieme
a The Combo (oltre a Lancio, Nathan Gehri al basso, Kenneth Blevins alla batteria,
alcuni interventi di John Coleman alla tastiere) scelgono un suono più rilassato,
laid back, altre volte un'atmosfera leggermente più urbana, a cominciare dall'attendista
Long Time Comin' piazzata in apertura. Album
umile e senza dubbio "minore", nel suo rimuginare su amore, rapporti umani e vecchiaia,
Terms of My Surrender possiede un suo fascino bluesy, nonostante la routine sia
un prezzo da pagare per un autore che decide di non frenare la sua produzione.
Non tutto fatalmente è di prima scelta - la stessa title track traccheggia un
poco con scaltrezza e l'equilibrio elettro-acustico di Come Back Home sa
tanto di ennesima variazione su temi "alla John Hiatt" - ma quando parte il velluto
folk swingato di Marlene e i suoi coretti
irresistibili, la classe è ancora intatta, così come sorprende il timbro scurito
e densamente blues della voce roca di Hiatt nel gioiellino Wind
Don't Have To Hurry, densa ballata sudista falciata dai cori black,
o ancora nella morbida e rustica Nobody Knew His Name per mandolino e dobro.
Un paio di "lentacci" affondati nelle acque salmastre del blues, tra il
boogie rilassato di Nothin' I Love e una ossessiva Here
to Stay avvolta in riverberi degni del Bob Dylan di Time out of Mind
(la somiglianza è anche stilistica) tendono a trascinare Terms of My Surrender
in un lavoro di genere, ma nel finale il delizioso country infuso di gospel dal
titolo Old People risolleva le sorti e porta
a casa ancora una volta un risultato rispettabile. Qualcuno potrebbe obiettare
che una scelta più prudente e una selezione del materiale in questi anni avrebbero
forse prodotto dei mezzi capolavori, invece di tanti dischi disseminati qui e
là, e avrebbe ragione, ma John Hiatt comincia a far parte della categoria di quegli
autori fuori del tempo, per i quali incidere è un po' come l'ultima ragione di
vita.