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garage rock, 60s pop rock di
Gianuario Rivelli (13/12/2012)
Sta
di fatto che il surrealismo bubblegum della copertina non ci permette di dare
coordinate temporali al tutto. Sta di fatto che, nonostante le lancette dell'orologio
siano sballate, sappiamo che di ore ce ne sono volute dodici. Sta di fatto che
per incidere queste canzoni (ancora dodici) non sono stati chiamati in causa né
alcool né droghe e che i ragazzi si siano concessi al massimo una tazza di tè.
E, badate bene: quel che vediamo attorno è un'allucinazione partorita dalle nostre
menti appesantite perché in realtà stiamo vivendo un Tiempo de Lujo.
Il gusto per lo sberleffo e l'ironia non è mai mancato agli Young Fresh Fellows,
più o meno da trent'anni in pista a dissacrare il music biz e ad alimentare un
culto sotterraneo che li ha visti amati da un totem come Paul Westerberg (leggenda
vuole che prorio loro abbiano allietato il matrimonio del Replacement nel 1987)
e autori di almeno un disco da incorniciare, The Man Who Loved Music del 1987.
Non che la creatura sia stata sempre accudita, dato che primo fra tutti
il leader Scott McCaughey si è concesso frequenti scappatelle dalla casa
madre dando vita ai Minus 5, rimpolpando per diversi anni i R.E.M. e animando
tra gli altri il Baseball Project. Ciò non toglie che di tanto in tanto ai ragazzi
giovani e freschi torni la fregola di un tempo e ci si ritrovi tutti insieme nel
basement del chitarrista Kurt Bloch per ridare lustro alla sigla YFF. Ed ecco
che McCaughey, Bloch, Jim Sangster (basso) e Tad Hutchinson (batteria) si sono
rinchiusi tra quattro mura per un'unica session di dodici ore, dando vita a Tempo
de Lujo al ritmo di una canzone all'ora, buona la prima e via andare. Il frutto
del tour de force creativo è al solito colorato e gustoso: pop rock scanzonato,
ganci che si piantano in mente, melodie efficaci, guizzi di talentuosa originalità
rimangono tuttora le armi migliori del quartetto di Seattle. La loro attitudine
garagista esplode nei riff sfrenati della iniziale Another
Ten Reasons (Bloch sul finale diventa incontenibile) e in Death
of an Embalmer contrapposte alla levità di A
fake hello e Life is a funeral factory
(estiva e westcoastiana), a conferma che la tavolozza è ricca.
Say
Goodbye Center è una languida e dilatata ballad che ti si pianta subito
in mente, prezioso retaggio dei trascorsi di McCaughey nei R.E.M. di fine anni
90, così come Margaret rimanda al drum'n'bass
che ha ricoperto di gloria la band di Athens negli 80. E il tris Cleflo and
Zizmor (filastrocca storta a più velocità), I Don't Know Why e la magnifica
Love Luggage (armonica blues, parlato, aromi
western e un hook irresistibile shakerati nel pezzo migliore della dozzina) dimostra
una volta di più che non bisogna chiedergli chi erano i Kinks perché lo hanno
sempre saputo benissimo. Alla fine non rimane che leccarsi i baffi perché, al
netto di qualche discontinuità e della sensazione che alcuni spunti vincenti non
siano stati sfruttati a pieno, McCaughey e soci hanno nuovamente distillato talento
puro in un disco vario, colorato, vivace, che cresce ascolto dopo ascolto. E lo
hanno fatto in sole dodici ore tenendo sempre ben presente la loro missione ultratrentennale:
divertirsi e divertire. Missione compiuta. May they be young and fresh!