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indie soul di
Fabio Cerbone (10/10/2012)
Spiazzante:
mancava ancora uno sconfinamento dell'universo indie rock e in generale di una
certa estetica musicale, tra compassione, malinconia, timidezza e bassa fedeltà,
nelle trame della soul music. Ci ha pensato Matthew E. White, che inventandosi
direttore di una fantomatica orchestra denominata The Spacebomb, ha messo a frutto
la sua educazione di musicista e arrangiatore sui generis (dall'avanguardia jazz
del progetto Fight the Big Bull alla passione per il cantautorato americano più
classico) in un disco che fa al tempo stesso del portamento elegante e della fragilità
delle melodie un punto di fascino indiscutibile. Il richiamo fortissimo è per
la stagione settantesca del soul psichedelico e del pop d'autore più sofisticato,
luogo idealizzato dove si incontrano l'accento religioso e gospel della tradizione
black con l'ironia sudista di Randy Newman, il groove irresistibile di Curtis
Mayfield con la raffinata maniera di Harry Nilsson, l'accorata sensibilità rurale
di The Band con il genio armonico di Brian Wilson.
Tanti stimoli certo,
ma nessuna dipendenza formale, solo suggestioni che trovano quindi una sintesi
personalissima fra le trame di sette lunghe suite, ad ogni giravolta imprevedibili
e colme di idee originali. Da una parte la voce sussurrata, indefinita di White,
ragazzone cresciuto fra le colline e l'aria agreste della Virginia e il mondo
nuovo di Manila, dall'altra una stratificazione di archi, intere sezioni fiati
e un piccolo combo (Cameron Ralston al basso e Pinson Chanselle alla batteria)
che si allarga alla pertecipazioni di Reggie Pace (collaboratore di Bon Iver),
Phil Cook (Magafaun), David Hood e una miriade di comprimari. Le cose sono costruite
in grande ma l'effetto non è assolutamente di sovrabbondanza: a fare da contrasto,
come anticipato, la vocalità un po' impressionista, chiaramente assai poco black
di White, che rende placida la sensualità di One of These
Days, mischiandosi con i cori femminili e il tappeto sontuoso costruito
da fiati e violini. Come se Will Oldham, in arte Bonnie Prince Billy, avesse deciso
di abbandonare la campagna country e farsi un giro tra Memphis e Detroit, con
i santini di Al Green e Curtis Mayfield nel portafoglio.
L'effetto è quanto
meno straniante, ma una volta penetrati nel mood di Big Inner si
esce rapiti dalle soluzioni che la Spacebomb House band così ribattezzata ha saputo
imprimere al materiale. Il quale resta un viluppo di pulsioni religiose tipicamente
sudiste, tematiche di desiderio e fatale mortalità, che si innalza nel groviglio
funk di Big Love e si solleva al cielo in
Steady Pace. L'elemento "indie" evocato in
apertura sale in superficie soprattutto nel modo di Matthew E White di affrontare
le sue passioni: difficile trovare un simile approccio nella soul music ascoltando
Will You Love Me o la lunga malinconica Goin
Away, che hanno forse più a che fare con i Lambchop (ecco un buon trait'
d'union per l'interpretazione dello stesso White) che non con la storia della
Motown. Poi, quando sei convinto di averlo decifrato, Big Inner rifila un fraseggio
di chitarra, un passaggio pianistico, un call&response dei fiati e ti ritrovi
nel magma di Brazos, nove minuti di apoteosi
che chiudono l'album tra cori celestiali e una interminabile coda che ha l'ardire
di un autentico mantra soul.