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indie rock, alt.country di
Yuri Susanna (16/01/2013)
Neanche
fosse un brutto anatroccolo colpevole di non essere diventato cigno, Adam Shearer
è stato messo da parte e quasi dimenticato. Eppure le stelle sembravano averne
in qualche modo benedetto l'ascesa: fin da quel primo album (2006) intitolato
Demersville e pubblicato a nome John Weinland, il barbuto (come di prammatica)
folksinger della città più indie d'America - Portland, Oregon: cioè quella tessera
di puzzle che sta tra la California e lo stato di Washington - sembrava un predestinato.
Basta prendere nota di chi compariva su quel disco: M. Ward, Bright Eyes (al secolo
Conor Oberst), membri sparsi di Dolorean e Decemberists... Scusate se è poco,
per un esordiente. Il secondo lavoro, La
Lamentor, raccolse recensioni positive un po' ovunque, e parve davvero
che i Weinland (diventati intanto una band vera e propria) stessero per
fare il salto di categoria. La cosa si ripeté anche con il successivo The
Breaks in the Sun, lavoro forse meno cupo ma sempre legato a un'estetica
di moderno folk sofferto e virato al blu. Da qualche parte tra Elliott Smith,
Mark Kozelek e Will Oldham, se vi interessano le coordinate. Ma il salto non c'è
stato, e la band è rimasta un'attrazione dentro i confini dell'Oregon (dove i
loro show vanno tranquillamente sold out) e un nome di nicchia nel resto dell'orbe.
I tre anni che separano Los Processaur dal predecessore,
anche se non sono frutto di un calcolo (il disco era in lavorazione nel 2010,
poi vicissitudini varie ne hanno ritardato il completamento e l'uscita), autorizzano
a considerarlo quasi come un secondo esordio, tanto segna una soluzione di continuità
rispetto ai lavori precedenti. Sparite quasi completamente le tracce di quella
riflessività sadcore che aveva inchiodato la loro musica a ripetuti paragoni con
i (soliti) nomi ricordati sopra, i "nuovi" Weinland si presentano come una rock
band che non disdegna di picchiare sulle pelli dei tamburi e di alzare il volume
delle chitarre. Un cambio di paradigma che disorienta, ma funziona dannatamente
bene. Il nuovo verbo che Shearer e soci masticano con soddisfatta convinzione
è una specie di alt-country sbilenco, un indie-roots che individua i propri referenti
nei Wilco (Way Too Soon, oppure la scorbutica
grazia di Another Dollar Rainy Day), nei vicini
di casa Decemberists (soprattutto quelli del recente ritorno alle radici, vedi
la solarità folk-rock di Bones Cracking In)
e in parte anche nei My Morning Jacket (Yessie Yames è già nel titolo un
omaggio a Yim Yames, alias Jim James), o negli Okkervil River (Saints
& Sinners).
Chi l'avrebbe detto che, dietro la limpida malinconia
folk cui ci aveva abituati, Shearer nascondesse l'abilità di far partire ganci
pop o riff tetragoni come quello di Holy Rose (in
cui lambiamo addirittura territori hard-blues anni '70)? Eppure le canzoni parlano
da sole, e raccontano che mettendo in primo piano le chitarre, usando le tastiere
(Hammond B3 e piano) come contrappunto e sfruttando la forza delle armonie vocali
- affidate per lo più a Alia Farah - la scrittura di Shearer raggiunge una dimensione
in qualche modo "classica" (i dylanismi di The Champ o il country-rock
di The Eagle lo rivelano) e ne esce rafforzata
e vincente. Eppure il produttore è quello di sempre (Adam Selzer), e anche i comprimari.
Forse la chiave sta in una canzone del disco, una dedica alla sua città (si intitola
Portland, semplicemente), in cui a un certo
punto Shearer canta: "It rains 364 days a year here/ On the other day the weather's
fine." Ecco, se i precedenti dischi dei Weinland suonavano come un distillato
di quei 364 giorni, Los Processaur sembra concepito nel giorno rimanente. Forse
la differenza è tutta qua.