Il delicato intreccio fra chitarre e pedal steel dettano il passo fluttuante di
Sun Song e dell'intero Warp & Weft,
ritorno elettrico, per sintesi affrettata, di Laura Veirs sulle scene.
Che vi sia l'amica Neko Case ad ammantare il brano di una tenerezza senza tempo
è anche il segnale di una comunione artistica che avrebbe potuto offrire alla
Veirs le medesime fortune della prima. Un raggio d'azione simile che potrebbe
riconoscersi anche nell'Americana dai tratti eterei e maliconici di Kathleen Edwards.
Il carattere schivo e la voce più suadente e fragile di Laura Veirs ha evidentemente
giocato a (s)favore del suo culto, apprezzata eroina del folk rock di oggi, accerchiata
dalla fertile scena indipendente di Portland, lì dove il sodalizio artistico e
familiare con Tucker Martine (produttore "re mida" dell'indie folk e dintorni
di oggidì) ha portato in dono un disco più screziato e mosso dei precedenti, abbandonando
un po' il serioso approccio acustico di July Flame e chiudendo altresì la parantesi
curiosa di Tumble Bee, album di ballate folk per bambini che aveva inaugurato
la stagione delle maternità di Laura Veirs.
Non so dire se Warp & Weft
sia il lavoro della sintesi e della maturità, abusando di un clichè critico, ma
poco ci manca: è senz'altro un disco deliziosamente efficace nell'amplificare
le liriche della protagonista, divisa tra il personale (ancora la maternità e
più in generale il raporto con la vita nei suoi riflessi naturalistici) e il mondo
che la circonda (dalle favole ai caratteri storici che si alternano in scaletta).
Di sicuro l'abbondanza di ospiti che si palesano nell'arricchire ogni singola
sfumatura ha nutrito le ballate sobrie e soffuse della Veirs: non è da tutti imbarcare
kd lang, Jim James e Carl Broemel (MY Morning Jacket), la citata Neko Case o Nate
Query (Decemberists), ma soprattutto non è da tutti dirigerli in un senso unico
di marcia. La coppia Veirs-Martine ci è riuscita escogitando brani di raccordo
(gli strumentali Ghost of Louisville, Ikaria) che stemperano e diluiscono
l'atmosfera bucolica dell'album, diviso tra momenti rock ariosi (una America
che si apre a tastiere e battiti new wave, la dedica ad Alice Coltrane di That
Alice, con chitarre dalle cadenze "younghiane") e docili arzigogoli
folk rock che dischiudono commoventi melodie circolari (Dorothy
of the Island, uno dei vertici di ispirazione della raccolta) e episodi
più strutturalmente legati allo stile della Veirs, dagli arpeggi alt-country impressionisti
di Finister Saw the Angels e Ten Bridges
alla toccante storia di Sadako Folding Cranes,
dedicata alla tragica figura di Sadako Sasaki, bambino sopravvissuto al bombardamento
di Hiroshima.
Ciò che tuttavia distingue Warp & Weft dall'essere un semplice
riassunto delle conquiste passate o peggio un disco di maniera, sono le diverse
soluzioni sonore, gli arrangiamenti minimali eppure ricchi di tonalità, fino a
spingersi nella timida orchestrazione di Shape Shifter, ma soprattutto
nel finale sorprendente di White Cherry, omaggio
sentito al jazz modale, con un dialogo continuo e affascinante tra sax, piano
e organo (che in prospettiva ricorda un po' l'ultimo Iron & Wine), mentre Laura
Veirs svolazza timidamente sulla melodia con poche misurate parole.