Angus Stone
Broken Brights
[Desert Harvest Records  
2012]

www.angusstone.com


File Under: modernariato folk-rock

di Yuri Susanna (19/09/2012)

Ha un modo di cantare un po' paraculo, Angus Stone. E dietro lo sguardo da cane smarrito cela un'aria da "piacione" che metà basta. Però sa come scrivere un buon pezzo - melodico e avvolgente al punto giusto, identificabile dopo appena un paio di ascolti - senza farlo sembrare troppo scontato. Lo sa anche arrangiare con gusto - la batteria entra sempre quando il pathos lo richiede e certi tocchi di eccentricità (il flauto irlandese che irrompe nel quadretto western di The Blue Door, tanto per dirne uno; la tromba che illanguidisce il trotterellare country di Monsters, per dirne un altro) increspano quanto basta la superficie di classicità folk-rock in cui queste composizioni si specchiano, suggerendoci che appartengono al presente tanto quanto alla temperie californiana di quarant'anni fa (Neil Young resta il modello principe, anche se non è da escludere che Stone, vista la giovane età, ci sia arrivato passando per Ryan Adams).

Non ultimo, sa come farli suonare bene, i suoi brani (si produce da solo): le chitarre acustiche per esempio hanno un timbro rotondo, caldo, mentre quelle elettriche suonano asprigne - quello che si chiede a queste ballate più o meno malinconiche, più o meno dolenti e confidenziali. Nutrivamo già il sospetto che nella fortunata partnership con la sorella Julia (triplo disco di platino in Australia per l'ultimo Down the Way) lui fosse quello più dotato, almeno come autore. Ora che sono usciti in contemporanea i lavori solisti di entrambi, possiamo tirare un po' di somme. Laddove By the Horn, il disco di Julia, è opera di eterea levità retropop che poggia soprattutto sulla vocalità infantilmente charmant della ragazza, in Broken Brights protagoniste sono le canzoni. E quelle buone non mancano. Avrete forse già familiarizzato con gli echi da Laurel Canyon di Bird on the Buffalo e Broken Brights, due brani che hanno anticipato l'uscita dell'album di quasi tre mesi; ma c'è molto altro che merita attenzione, a partire dall'agreste malinconica semplicità di River Love e Wooden Chair, e senza trascurare l'indolenza di The Wolf and the Butter (a metà tra Harvest e il Donovan di Mellow Yellow).

La citata Blue Door ha una vibrazione morriconiana sentita già mille volte, eppure suona fresca (certo, ci piacerebbe sentirla cantare da Mark Lanegan, ma non si può avere tutto) e Only A Woman è un'intensa cavalcata che paga i suoi ovvi debiti ai Crazy Horse. It Was Blue è uno strano giro di giostra, in un vorticare di archi e distorsioni, e l'aria caraibica di Be What You Be fa intendere che il ragazzo frequenti anche i dischi di Jimmy Buffett. Si chiude a sorpresa con la pillola psichedelica di End of the World, che lascia un sapore di Jefferson Airplane in bocca. Per certi versi, e con le differenze di caratura e di genere, Angus Stone ci ricorda un po' Jack White. La natura ha dotato entrambi di un indubbio gusto, di una (pare) innata abilità nel mescolare ingredienti tradizionali in una ricetta vintage, ruffiana e godibilissima. Se dobbiamo fargli un appunto, possiamo dire che Stone sembra troppo consapevole di queste sue doti: come se fosse più abituato a guardarsi allo specchio, che dentro di sé. Ecco, forse il giorno in cui si dimenticherà (almeno un po') del proprio talento, ne potremo ascoltare veramente delle belle.


   


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