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guitar rock, garage pop di
Gianuario Rivelli (19/01/2013)
Non
so voi, ma devo ammettere che prima del gustoso ascolto di questo loro sesto disco,
dei Johnny Society neanche per caso avevo sentito profferire il nome. Mal
me ne incolse, perché la band della valle dell’Hudson (una delle lands that
built America) è una formazione meritevole di attenzione e faccine come minimo
sorridenti. Un paio di attenuanti a favore dell’uditorio a dire il vero ci sono:
a partire dalla nascita (1996) il loro percorso è stato affatto lineare, con cambi
di formazione, temporanee deposizioni in naftalina e un intervallo biblico tra
il loro precedente disco (Coming to Get You è del 2005) e questo. Sarebbe a questo
punto imperdonabile non accendere almeno qualche luce sul loro guitar-rock rutilante,
sul sound compatto e sullo spiccato senso della melodia che permeano Free
Society, 50 minuti di musica sempre ruggente, credibile, coinvolgente.
Il tutto è in gran parte frutto dell’ispirazione del vulcanico frontman
Kenny Siegal, talento compositivo, voce e fantasia da piani alti, cofondatore
della band con il batterista Brian Geltner, mentre la moglie Gwen Snyder, nel
gruppo dal 1999, è titolare del basso. Guitar rock si diceva, ma solo per dare
delle vaghe coordinate, perché lo chef Siegal utilizza tutte le spezie possibili:
fiati, piano, archi, orchestrazioni di ampio respiro, gocce di glam, reminiscenze
di british invasion, calore soul. E lo fa, al netto di qualche esagerazione, senza
mai suonare furbetto o fighetto, bensì solo ambizioso e appassionato. Il botto
di partenza è So Quick to Turn, potente rock-blues
tra Stones e Tom Waits, seguita sullo stesso sentiero da Town
Hall, alta temperatura e un ritornello muscolare che squarcia il velo
funkeggiante che la contraddistingue. We Already Are
e Save it for Another Day sono
due perfette ballad che dimostrano in maniera lampante come se i nostri volessero,
il titolo di Pearl Jam della East Coast non glielo toglierebbe nessuno (ma vengono
alla mente anche gli australiani Powderfinger): voce calda, melodie vincenti,
tastiere perfettamente incastrate alle chitarre, uso degli archi.
La parte
centrale è al servizio dell’eccentricità: prima Steel
Will, una simpatica accozzaglia di tastiere sghembe, clima notturno,
esplosioni rock e un assolo quasi hendrixiano, poi They Bring Mail to Me on
Sunday che mischia inopinatamente dark e samba (!). Persino troppa carne al
fuoco, ma la sincerità delle intenzioni fa digerire anche qualche eccesso. E se
ci fossero ancora dubbi sul valore di Free Society, arriva l’uno-due finale a
fugare ogni dubbio. Inferno e paradiso, due gioielli opposti e complementari:
tanto sulfurea, battente, dal groove irresistibile è Stabbed
in the Back (grande canzone), quanto dolce, solare, pacificata è Daylight,
dalle evidenti influenze british. Uno di quei dischi che mettono positività nell’aria,
senza smancerie, semplicemente (sembra facile) con canzoni di personalità, che
sanno come trascinarti dentro le loro pieghe fino a farti aderire senza indugi
alla Johnny Society.