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hippie & indie di
Fabio Cerbone (18/09/2012)
Mancherebbe
soltanto una copertina più ragionata (questa, improponibile, ha giusto i colori
dell'arcobaleno a far saggiare il tenore delle musica...) per descrivere il profluvio
di eccitazione hippie che attraversa questa combriccola di musicisti californiani
(otto in tutto nella formazione principale, altrettanti se non di più quelli di
contorno), denominatisi Edward Sharpe and The Magnetic Zeros. I toni sono
quelli bizzarri e coloriti di un folk rock che ammicca alla lontana "Estate
dell'amore", San Francisco e dintorni, rivisti e coretti secondo lo spirito
un po' ondivago della scena indipendente di oggi, ragione per cui tutto può rientrare
nella formula e nulla deve essere abbracciato fedelmente, semmai abbozzato. Basta
citare, rimandare, evocare, prendendo a prestito una vecchia melodia tradizionale,
un coro gospel, una chitarra acida, effetti a bassa fedeltà, voci celestiali e
altro ancora.
Here è il secondo lavoro della band, che ha
esordito nel 2009 sulle ceneri degli Ima Robot, altra musica e altra storia per
il leader Alex Ebert. Allora c'era il punk e le sue evoluzioni nel rock più modernista,
oggi c'è appunto lo pseudonimo Edward Sharpe (che è tutti e nessuno, sia chiaro,
visto che la band si sviluppa con puro spirito comunitario) e una creatura che
ha preso una direzione imprevista: molta fascinazione in comune con l'attuale
ondata di West Coast sound, ma con quella punta di eccentricità che si conviene
a musicisti come Ebert e la collaboratrice Jade Castrinos, principali voci sul
campo. Questa variopinta carovana si concretizza in un disco che offre momenti
irresistibili e altri di assoluta approssimazione, come se volesse mantenere fede
all'immagine un po' freak dei suoi protagonisti, mai troppo concentrati sul pezzo.
Ecco dunque che ai testi un po' farseschi e intrisi di miraggi hippie
(è tutto un proliferare di speranze, preghiere, esortazioni) si accostano in principio
piacevoli riletture di genere: Man On Fire
è l'inno folk da piazzare in apertura, accomodando l'ascoltatore tra le fragranze
californiane dei Magnetic Zeros; That's What's Up
una variazione in chiave gospel che regala sprazzi di autentico, trascinante sixties
soul ed esalta l'ottimo lavoro di Stewart Cole (ogni genere di piano, organo e
strumento a fiato); I Don't Wanna Pray la
logica chiusura del cerchio, in direzione delle radici e di un guizzante country
gospel agreste, come se la Carter Family avesse tirato su casa nella Baia. Fossero
continuate queste sorprese, la giocosa schizofrenia dei Magnetic Zeros avrebbe
portato a casa un album curioso e stimolante. Purtroppo strada facendo tutto si
spegne, cambiando anche registro: se Mayla
è una stramba interpretazione in chiave psichedelica di certi umori da world music,
One Love to Another si dirige persino verso
i Caraibi, mentre Dear Believer, Child
e All Wash Out galleggiano tutte in una docile
atmosfera folkie di fine sessanta che non desta particolari attenzioni. Un peccato,
perché quando parte Fija Wata verrebbe quasi
voglia di tornare tutti al Golden Park di San Francisco a intonare poesie con
Allen Ginsberg. Un po' troppo caricaturali.