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indie-folk di
Fabio Cerbone (17/04/2012)
Chi
temeva un eccessivo "inquinamento" della musica di Matt Ward dopo l'inaspettato
e curioso successo del duo She and Him (il variopinto progetto vintage pop imbastito
con la cantante Zooey Deschanel) dovrà ricredersi: A Wasteland Companion,
pur non rinunciando ad un approccio colorato e spesso accattivante, recupera persino
la fedeltà acustica e rurale dei primi lavori, abbandonando un poco le ambizioni
e certi sperimentalismi del più recente Hold
Time. Un ritorno a casa dunque, sancito immediatamenre dalle rifiniture
acustiche di Clean Slate o dall'arrembante
folk straccione di Me And My Shadow, che suonano
come una pacifica maturità per l'artista di Portland, visto che i segnali sembrano
proprio quelli di una serena rilettura delle conquiste passate.
In questa direzione A Wasteland Companion è forse il disco meno avventuroso
dal punto di vista artistico e al tempo stesso uno dei più accessibili
della sua carriera, un veloce sunto delle caratteristiche di questo atipico
folksinger, partito dalla "bassa fedeltà" acustica di colleghi a lui contemporanei
come Iron & Wine e approdato a definire meglio il suo amore per il passato.
Nel nuovo lavoro vibrano ancora i ricordi della tradizione mischiati al
pop più etereo, al folk sussurrato e alle trame blues e desertiche della
sua chitarra, richiamando a gran voce l'ispirazione di Transfiguration
of Vincent e Transistor Radio, opere chiave della sua produzione. L'uniformità
del linguaggio e questa precisa intenzione di ritornare sugli stessi passi
è sorprendente se letta alla luce dei numerosi ospiti e delle sessioni
tenutesi per confezionare A Wasteland Companion, un album in teoria assai
smanioso di sperimentare: registrato infatti con l'ausilio di Tom Schick
e John Parish (PJ Harvey) in otto differenti studi sparsi in America ed
oltre, da Portland a New York, da Austin alla lontana Bristol in Inghilterra,
con una ventina di musicisti al seguito (tra gli altri Mike Mogis dei
Bright Eyes, il mentore Howe Gleb dei Giant sand, Steve Shelley dei Sonic
Youth), il prodotto finale è quanto di più distante si possa immaginare
da una collezione dissennata.
Il baricentro resta la capacità di M. Ward di giocare sui chiaroscuri
dei suoi ricordi (i testi con un sfondo sempre nostalgico) e sulle qualità
delle tessiture chitarristiche: al bagno sixties di Sweetheart
e alle movenze pop di una irresistibile Primitive
Girl, condotta per mano dal saltellante pianoforte, rispondono
il barcollare da saloon di I Get Ideas
e le brume western di una Watch The Show,
che sarebbe piaciuta ai Calexico. Peccato che nel finale questo variopinto
rimbalzare di umori si adagi un po' sulla malinconia folk tipica del menestrello:
M Ward rispolvera in There's A Key e Pure
Joy il suo marchio di fabbrica e procede un poco con il pilota
automatico, facendosi anche eccessivamente impalpabile con Wild
Goose. Da qui l'impressione che A Wasteland Companion sia un
disco per riordinare le (belle) idee, in attesa magari di una svolta decisiva.
Ciò non toglie che sia sempre dannatamente adorabile all'ascolto.