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rock di
Gianuario Rivelli (01/10/2012)
In una bella canzone di qualche anno fa, gli Afterhours sostenevano che la rabbia
è un carburante nobile. Per scrivere grandi canzoni rock, poi, è il carburante
nobile per eccellenza; poco importa se di anni ne hai 18 e fondi una band seminale
come gli Hüsker Dü o ne hai 51 e senti che è il momento giusto per riconciliarti
con un passato glorioso. Chissenefrega se la barba è bianca e i capelli si possono
contare: il manifesto rimane sempre “Never too old to contain my rage” che risuona
nella title track di Silver Age, disco con cui Bob Mould
ha deciso finalmente che era ora di riportare tutto a casa, imbracciare le chitarre
e lanciarle a rotta di collo in riff micidiali e taglienti.
La sua carriera
solista, per un tratto parallela al capitolo Sugar, era iniziata alla grande (Workbook
e Black Sheets Of Rain) ma era proseguita in direzioni molteplici e con esiti
altalenanti, comprese le dimenticabili incursioni in sperimentalismi elettrici.
Poi la pubblicazione della sua autobiografia See a little light: the Trail
of Rage and Melody (ancora la rabbia, guarda caso…) scritta a quattro mani
con Michael Azerrad, deve aver rappresentato per Mould un punto e a capo; come
dire dopo le memorie, la memoria intesa come ritorno a un rock puro, viscerale,
senza fronzoli, chitarra-basso (Jason Narducy)-batteria (Jon Wurster). Il risultato
sono 38 minuti esaltanti da mandar giù tutti d’un fiato, tirati a rotta da collo,
freschi e coinvolgenti come se la firma fosse di un esordiente. Ognuno dei dieci
brani meriterebbe la citazione: la stigmatizzazione della fama declinata nel riff
perfetto di Star Machine, l’ictus chitarristico
della title track (forse il brano che più di tutti rimanda agli Hüsker Dü), la
melodia solare à la Sugar di The Descent,
i ricordi di un’infanzia non facile dipinti con secche rasoiate di Briefest
Moment. Steam Of Hercules, posta
al centro, è la (relativa) quiete dopo la tempesta: rallentata, anthemica e grondante
feedback è una di quelle ballate distorte di cui Mould è maestro.
Si riprende
a correre col drumming singolare che punteggia Fugue State e le chitarre
nuovamente a briglia sciolta di Round The City Square
e Angels Rearrange. In Keep believing pare
di sentire in un colpo solo i R.E.M. col pedale a tavoletta e i Pearl Jam degli
esordi. La conclusiva First Time Joy pare
nuovamente calare il ritmo per abbandonarsi ad un’elegia dei tempi andati, ma
di colpo riesplode fragorosa lanciandosi verso un’alba nuova (“Here we go again”
è l’emblematica lirica conclusiva). Silver Age è molto di più che un grande disco,
è il caro vecchio rock che si scrolla di dosso orpelli e formule alchemiche che
hanno cercato di modificarlo geneticamente. Bob Mould lo ha riportato alla sua
essenza primigenia: una scarica di adrenalina che ti arriva nelle viscere e ti
spinge a darti da fare, a vivere. Uno dei dischi dell’anno, ci potete scommettere.