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indie pop, singer songwriter di
Gianfranco Callieri (17/03/2012)
Un
giorno, tra una dialisi e l'altra, ci troveremo forse a spiegare ai nostri nipoti
cos'era, negli anni Dieci del nuovo millennio, la "musica da telefilm". Siccome
alla posterità delle suddette spiegazioni non importerà, giustamente, una beata
verza, monologanti e rimbambiti rammenteremo i tempi in cui un certo songwriting
americano, per trovare spazio negli eccezionali serials televisivi allora contemporanei,
sembrava costretto a suonare dolente e pseudo-ambient, malinconico, intimista
e ripiegato su se stesso come un adolescente intento a rattristarsi di fronte
a una giornata di modesta piovosità. Ricorderemo i vari William Fitzimmons, Snow
Patrol, The Fray, Jason Mraz, l'ex-Moloko Róisín Murphy, Greg Laswell e, quanto
mai significativa in tal senso, Ingrid Michaelson (che del resto, del suddetto
Laswell è moglie), ennesima propaggine di un indie-pop tanto introverso quanto
posticcio, inevitabilmente raggomitolato sulla coolness indisponente di
un intreccio tra elettronica e atmosfere d'altri tempi, tra ricerca (spesso inutile)
e echi del passato.
Torneremo con la mente, ormai abbandonata al vaniloquio
della vecchiezza, a Human Again, il quinto disco della Michaelson,
e - chissà - lo troveremo ancora esemplificativo di una scrittura, in sé tutt'altro
che banale o poco efficace, appesantita però dall'obbligo di (auto)impacchettarsi
quale sfondo preconfezionato di una colonna sonora e pertanto un po' sintetica
e un po' no (comunque, vent'anni fa, sulla batteria di Fire
o Blood Brothers ci avremmo riso sopra), un
po' poppettara e un po' no, un po' orchestrale e un po' no (da questo punto di
vista il nome del produttore, il David Kahne di Linkin Park, Lana Del Rey
o Sugar Ray, è una garanzia di mancanza di senso della misura), in un perenne
susseguirsi di mezze misure contrassegnate da poco o punto carattere. Ci domanderemo,
persi in mille questioni inutili, perché le bonus-tracks di Human Again, in particolar
modo uno squisito demo casalingo di Ribbons,
col suo delizioso intercalare acustico di reggae e vibrazioni jazzy, e una toccante
End Of The World eseguita dal vivo, in splendida
solitudine pianistica, suonassero decisamente meglio delle versioni ufficiali,
spesso patinate e zuccherose ben oltre il limite consentito. Proseguiremo a interrogarci
sul perché un'artista le cui liriche sapevano rievocare il sarcasmo rabbioso della
prima Alanis Morrissette si accontentasse di suonare come un incrocio tra il rock
banalotto e radio-friendly delle Veronicas e il pop improponibile di Kelly Clarkson,
coi violini piazzati a casaccio tra gli intervalli delle percussioni e le parentesi
funk (ascoltate Black And Blue) levigate e
ripulite come in un bignami del soul bianco interpretato dalle terrificanti Girls
Aloud.
Concluderemo, da bravi vegliardi soddisfatti del nostro solitario
ragionare, che certa musica, nonostante le indubbie capacità dell'autrice, poiché
una meraviglia come Ghost (immaginate una
Laura Marling più classicheggiante e meno spigolosa) non si compone dal nulla,
nasceva per servire mammona e non certo i lampi dell'ispirazione, per finire nello
score di Grey's Anatomy, per essere citata in una puntata dello show televisivo
di Oprah Winfrey, per diventare il seguito di un hashtag o sollecitare un tweet
- tutte ambizioni legittime, per carità, ma non proprio fondamentali nel certificare
la qualità di un disco. E allora, magari, quando ci renderemo conto che nessuno
dei nipoti ricorderà il nome di Ingrid Michaelson e che Twitter, per loro, rappresenterà
già la preistoria, forse ci scapperà pure un sorriso. Di liberazione, se non altro.