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space-rock for dummies di
Yuri Susanna (14/11/2012)
L'immagine
che campeggia sulla brutta copertina di Dept. of Disappearance induce
a rinnovare una specie di compassionevole simpatia per il personaggio Jason
Lytle, eterno disadattato del pop alternativo fin dai tempi in cui i suoi
Grandaddy - per alcuni niente più che una versione sfigata e nerd dei Pavement,
per altri niente meno che gli eredi dei Radiohead - sembrarono l'incarnazione
quasi perfetta di una certa sensibilità indie da "generazione dot-com". Si era
a cavallo tra i due millenni, altra epoca, altri trend. Il mondo ha girato su
se stesso un po' di volte da allora, ma Lytle è sempre lì, a coltivare le sue
ossessioni con la stessa sbadata amorevolezza, lo stesso linguaggio autoreferenziale.
Un sopravvissuto, a suo modo. Che non ha ceduto alla sirena del mondo, e si è
scavato una nicchia rassicurante e isolata (letteralmente, visto che ormai vive
immerso nella natura del Montana), dalla quale tre anni fa ha ripreso a mandare
segnali all'esterno.
Il primo album solista (Yours
Truly, the Commuter) era stato in fondo una piacevole sorpresa, il
saluto inatteso di un conoscente perso di vista che faceva sapere di non preoccuparsi
per lui, che tutto andava bene. Da allora le occasioni di incrociarlo in giro
non sono mancate, Lytle si è mantenuto attivo su più fronti: collaborazioni, tributi,
progetti estemporanei, una side-band (Admiral Radley) e infine il reunion tour
dei Grandaddy. Insomma, questo secondo lavoro ufficiale ci trova molto più preparati.
E più esigenti, forse. Intendiamoci, il problema non è la fedeltà di Jason Lytle
a se stesso, il suo, diciamo così, immobilismo. Che poi potrebbe anche essere
rivoltato in positivo e letto come coerenza artistica, semplicemente. No, semmai
il problema è che, anche giudicato dalla prospettiva del peculiare universo artistico/comunicativo
del suo autore, Dept. of Disappearance suona come un lavoro poco ispirato. Non
se ne coglie la necessità, l'urgenza.
Ascolti il primo brano e ti ben
disponi a ciò che segue, ma quando arrivi in fondo ti sembra di non essere andato
da alcuna parte, che tutto era stato detto nei 4 minuti e mezzo iniziali della
title track, una neanche troppo velata dichiarazione di appartenenza a una generazione
in fuga dalla modernità: armonie vocali di trascurata seduzione pop, chitarre
e ritmi indie, sfondo di archi e la prevedibile intrusione di bip elettronici
"cucinati in casa", a dare quell'aria che fa tanto sci-fi in bianco e nero. Il
resto è una pleonastica ripetizione, a volte saporita (Hangtown,
con una melodia talmente vaporosa che pare galleggiare nella fascia d'ozono, il
distillato pop di Get Up and Go, il gradito
cambio di ritmo della vorticosa Your Final Setting Sun)
altre volte più sciapa, che nulla aggiunge e niente toglie alla sostanza del discorso.
L'immaginario è quello che ti aspetti, la consueta realtà distopica (più suggerita
che descritta), compensata da un escapismo ecologista che prevede stavolta anche
un'elegia per le Alpi (Last Problem of the Alps). Solo che queste cose
Lytle ce le aveva già raccontate meglio in altre occasioni. Niente di male, e
ci si vede alla prossima. Magari senza il casco da carpentiere in testa.