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techno blues di
Nicola Gervasini (13/02/2012)
Partiamo dal classico pelo nell'uovo: Mark Lanegan alla svolta synth-80
stavolta arriva tardi, quasi in affanno, diremmo pure in maniera scontata. Basta
anche non uscire dal nostro orto legato alle radici per renderci conto che il
sound tutto tastiere, drum machines e suoni nitidi e iperventilati sta inondando
i lavori di tanti artisti (Okkervil River, Bon Iver …), ma se considerassimo anche
il mondo musicale che generalmente non passa sulle nostre pagine per identità
di genere, allora risulterebbe ancor più evidente come l'80-like sia l'hype del
momento. E - aggiungiamo - non è certo di questo Blues Funeral la
scoperta che se al mood freddo e robotico di un sintetizzatore si oppone una voce
calda e profonda il risultato può essere esteticamente grandioso, visto che il
maestro Leonard Cohen insegnava la materia già quando il giovane Lanegan ancora
sbraitava in una cantina di Seattle.
Questo per dire che Blues Funeral
non inizia e finisce nulla, semplicemente si butta in una operazione degna del
David Bowie che fu, dove l'artista superiore al volgo profano continua a guardarsi
intorno con adeguata modestia invece di trincerarsi nel proprio rassicurante genio
personale. Prevedibile anche questo, quasi quanto prospettare nel futuro di Lanegan
un ritorno al rock roccioso proto-grunge degli Screaming Trees (magari addirittura
una reunion…), visto che già alcuni episodi di questo album (Riot
In My House, Quiver Syndrome) indicano
che la strada riporta in quel punto. Quelli più classic-rock sono però i punti
deboli di questo ennesimo suo buon album, quasi a dire che il nostro a furia di
giocare al folksinger (qui continua a farlo in Deep Black
Vanishing Train) ha perso un po' l'abitudine a duellare con le chitarre
elettriche. I tanto chiacchierati arrangiamenti techno-pop invece finiscono per
risultare più o meno riusciti, perché ad una base che chiunque potrebbe ricreare
in casa anche con un Bontempi ben programmato (Tiny Grain
Of Truth e Harborview Hospital),
si oppone sempre un artista e un autore ancora capace di fare la differenza (Gray
Goes Black su tutte), sempre più consapevole di avere nella voce l'arma
migliore, e per questo sempre più propenso ad usarla come strumento principale.
Basta anche sentirlo ruggire tout est noir mon amour in
The Gravedigger's Song per vibrare di piacere, e persino quando lui
crede di provocarci con una dance-song degna dei Pet Shop Boys (Ode
To Sad Disco) alla fine riesce solo a risultare intrigante come al
solito. Non bastano dunque questi suoni ad ammazzare il blues che è in lui, che
qui vive sempre alla grande nelle corde della lunga Bleeding
Muddy Water o in Phantasmagoria Blues,
brani come ne sono stati scritti già mille, che Lanegan però nobilita con la sua
lugubre recitazione. I grandi artisti sono quelli che, quando magari l'ispirazione
non è al top, sanno copiare meglio dagli altri: lo sapevamo già, Lanegan ce lo
sta soltanto confermando.