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indie folk-pop di
Fabio Cerbone (04/13/2012)
Diviso
fra trascendenza e introspezione, con toni confessionali che ci ricordano la sua
scelta di vita radicale, Joshua James è in un certo senso il propotipo
del folksinger di oggi: da una parte un legame mai rinnegato con le radici, le
trame acustiche, una composizione che ha memoria del passato, dall'altra la sfida
nel cercare melodie e suoni ai confini tra sensibilità indie rock e pop. Un percorso
già aperto con successo dai precedenti The
Sun Is Always Brighter, primo vero segnale del suo talento lanciato
al mondo, e Build
Me This, album che inaugurava una scrittura più libera e ambiziosa,
seppure con risultati alterni. Potremmo facilmente descrivere From The Top
Of Willamette Mountain come la sintesi, un lavoro che conserva il senso
di ricerca del suo predecessore ma al tempo stesso trova una formula musicale
più contenuta.
Merito da condividere con la produzione di Richard Swift
(già apprezzato per il team artistico con Damien Jurado) nei suoi studi personali
in Oregon, dove Joshua james si è trasferito per alcune settimane di registrazioni:
buone le prime take, un'attitudine live che si è quindi rimesssa alle cure dello
stesso Swift nel dare profondità alle singole canzoni. Il cortocircuito pare avere
funzionato in parte, nonostante certe leziosità dell'autore non vengano del tutto
cancellate: James continua a struggersi tra ballate acustiche di grande impatto
emozionale (Doctor, Oh Doctor, Willamette
Mountain) ed estasi folk pop (il grido di Mystic
in apertura, che potrebbe persino accostarsi ai Mumford&Sons) sfiorando semplici
melodie sixties (Surrender) o pulsioni più
elettriche (Queen of the City, con il piglio
del singolo, So Did I, fra le più intriganti
in termini di soluzioni sonore), ma tutto si può dire tranne che From The Top
Of Willamette Mountain sia un disco asciutto o poco ragionato.
È un po'
la caratteristica del musicista: suonare scarno e indifeso nell'interpretazione,
ma svelare in episodi quali Sister o Holly, Halej
una cura dei dettagli, delle voci, delle atmosfere che avvolgono l'intero
brano tutt'altro che improvvisate. Si crea così una palpabile tensione, che ricorda
non poco lo stile di David Gray (per il lirismo) e di Bright Eyes (per gli accenti
più tradizionalmente "americani"), punti di riferimento a volte ingombranti
(Ghost in the Town), ma dai quali è difficile prescindere se si toccano
le corde un po' introverse di questo songwriting alla ricerca di se stesso. È
peraltro Joshua James, come si accennava in apertura, a rammentarci direttamente
queste riflessioni: il suo "ritiro" meditato nella natura dello Utah (da cui il
riferimento del titolo, Willamette Mountain), l'idea di tornare alla terra, in
una fattoria dove si è messo persino ad allevare capre e polli, e di costruirsi
un mondo ecologicamente auto-sufficiente, richiamano una visione artistica che
diventa anche, forse soprattutto, una scelta di vita incondizionata. Che i suoi
dischi in fondo risentano un poco della medesima autarchia e di questo testardo
isolamento è un dato di fatto: tutto sta a condividerne la sensibilità.