Che la svolta quasi temeraria d Kiss
Each other Clean, soprattutto se paragonata alla timidezza acustica
degli esordi, non fosse un semplice fuoco di paglia o peggio una velleitaria operazione
di arroganza artistica, era chiaro a tutti. Ghost on Ghost è il
seguito che tutti, esclusi i nostalgici della malinconia folk ad ogni costo, si
potevano aspettare: e Samuel Beam, in arte Iron & Wine, non si è lasciato
sfuggire l'occasione per alzare nuovamente il tiro o per meglio dire per rifinire
i dettagli e smussare tutti gli spigoli, trovando in queste dodici canzoni altrettanti
stimoli per ampliare ulterioremente lo spettro della sua poliedrica musica. È
interessante e al tempo stesso bizzarro che Ghost on Ghost sia stato semplicemente
definito da più parti come il suo disco "pop", la faccia più levigata rispetto
all'austero predecessore: certo non mancano affatto segnali forti e chiari in
tale direzione, melodie e coretti che affondano in una estasiata California d'altri
tempi (gli strascichi dei Beach Boys che di tanto in tanto riaffiorano, passati
magari al setaccio degli Steely Dan, come accade in The
Desert Babbler e nella più eterea Joy), oppure leggiadrie degne
di Belle & Sebastian (la deliziosa marcetta retrò di Graces
for Saints and Ramblers) e persino codazzi country per archi, piano
e pedal steel degni di Elton John (la dolcissima Baby
Center Stage).
Eppure le spinte strumentali del nuovo album,
ancora una volta sotto la direzione produttiva di Brain Deck, sono tali
e tante che una semplice definizione pop sarebbe limitata: con una squadra di
musicisti abbondante e partecipe, una serie di imput che allegeriscono e contemporaneamente
aprono gli orizzonti del songwriting di Iron & Wine, Ghost on Ghost è un disco
dove alcune sofisticazioni soul anni 70, entusiasmanti divagazioni jazzy e un
intellignete utilizzo di archi e fiati (curati da Rob Burger del Tin Hat Trio)
emergono di traccia in traccia, spargendo umori di abbondante black music. È prorpio
il contrasto fra questa calda matrice nera e la voce suadente di Beam a creare
la peculiare caratteristica dell'album, che richiede più ascolti per entrare sotto
pelle, per schiudersi infine in tutta la sua magia, anche un po' kitsch se la
cosa non vi terrorizza.
Di primo acchito arrivano forse le più familiari
costruzioni di Winter Prayers e Caught
in the Briars, ponti lanciati verso il passato di album quali The Sheperd's
Dog e del citato Kiss Each Other Clean per non perdere del tutto la bussola, ma
in seguito ad affascinare sono soprattutto le dense inflessioni notturne di una
Low Light Buddy of Mine che sembra uscita
dalla penna del Joe Henry di Tiny Voices (stesso terreno tra canzone d'autore
confessionale e raffinate parentesi jazz), o ancora il bellissimo crescendo armonico
di Grass Windows, sempre segnata dalla presenza
di sax e tromba, per non parlare della densa Singers and the Endless Song,
un call & response tra voci e fiati dalla chiara matrice funky, e infine della
strepitosa Lovers' Revolution, sinuosa e cinematica
come non mai, con un bellissimo lavorio tra sezione ritmica, voci, piano e sax
e un intermezzo esplosivo che pare un'ode al Charles Mingus più fremente dell'epopea
hard bop. Un azzardo, un altro grande disco signor Beam.