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nostalgia pop, countrypolitan di
Fabio Cerbone (27/06/2012)
Accolto
già da un profluvio di osanna su buona parte della stampa americana, il ritorno
discografico (dopo undici lunghissimi anni di assenza) di Kelly Hogan si
riprende dunque con gli interessi l'immeritata oscurità a cui questa cantante
era stata destinata. Spesso descritta come una sorta di "singer's singers", sintetizzando
il grande rispetto di cui gode presso la comunità dei colleghi e la totale sottovalutazione
del grande pubblico, la Hogan è indiscutibilmente una della più belle voci del
nuovo folk sudista degli ultimi dieci anni. Purtroppo la sua fugace presenza nei
progetti The Jody Grind e The Rock*A*Teens non ha lasciato un segno, anche troncata
da vicende sfortunate e dalla ricerca di un'identità non meglio precisata. Non
a caso la sua tortuosa carriera, arenatasi dopo un paio di interessanti ma misconosciuti
lavori su Bloodshot all'inizio dello scorso decennio, si è svolta soprattutto
all'ombra di altri grandi interpreti: i limpidi e stentorei vocalizzi di Kelly
hanno accompagnato così, fra i tanti, l'amica Neko Case, Andrew Bird, Jakob Dylan,
Mavis Staples e una buona decina di altri personaggi, facendo spesso svoltare
una canzone verso l'alto.
Non stupisce allora che per il suo rilancio
su Anti, occasione da sfruttare al volo, si siano sprecati musicisti e autori
di peso: rileggendo il repertorio fra gli altri di Vic Chesnutt (l'intensità di
Ways Of This World è certamente uno dei picchi
dell'album), The Magnetic Fields, Handsome Family, John Wesley Harding, Robbie
Fulks e Robyn Hitchcock, o facendosi appositamente scrivere nuovi brani da M
Ward (le fascinazioni per Frank Sinatra in Daddy's
Little Girl) e dal citato Andrew Bird (una scintillante carezza
ritmica chiamata We Can't Have Nice Things),
Kelly Hogan ridefinisce i confini della sua languida canzone pop dalle intonazioni
country soul, sorta di aggiornamento del cosiddetto suono countrypolitan dei primi
anni 60, accendendo un cero alle icone di Patsy Cline e Bobby Gentry e magari
sbirciando anche la regina inglese Dusty Springfield.
Accompagnata per
mano da mostri sacri quali Booker T Jones e James Gadson (da Bill Withers a Ray
Charles la sua batteria ha il sigillo della leggenda), nonché da nuove leve della
rinascita soul come Gabriel Roth (dai Dap Kings di Sharon Jones), la Hogan disegna
in I Like To Keep Myself In Pain un nostalgico quadretto, pur conservando
la sua eleganza di interprete. Il problema a volte rimane esattamente questo:
una affettata grazia con la quale impadronirsi dei diversi linguaggi (d'altronde
Kelly ha sempre ribadito di adorare Hoagy Carmichael, autore immortale di standard
pop americani), svolazzando tra lo struscio country della title track, la sua
elegante variazione gospel sudista in The Green Willow
Valley e Plant White Roses, quest'ultima
con deliziosi intermezzi di pianoforte, il pop brillante e chitarristico di Haunted
e quello un po' furbetto, imbevuto di leggerezza sixties in Sleeper
Awake e Whenever You're Out of My Sight,
dove la protagonista va a nozze. Tutto persino troppo perfetto, suonato divinamente
senza dubbio, ma qualche volta stucchevole.