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purismo folk di
Fabio Cerbone (09/10/2012)
Al
terzo passaggio solista la musica di Neil Halstead approda ad un ideale
grado zero della sua scrittura, dopo un percorso di grande coerenza e fuori da
ogni possibile sfruttamento della sua indole folk. Nonostante abbia rappresentato
sin dai tempi dei Mojave 3 - pregevole avventura che anticipava molti dei temi
elettro-acustici del folk rock contemporaneo, un punto di riferimento per tutti
i nuovi cantori della malinconia cantautorale perduta tra le corde di una chitarra
(la definizione ironica di "nylon rock" è dello stesso Halstead e gli fa onore)
- l'autore di origini inglesi ha raccolto forse troppo poco in rapporto ai suoi
contributi artistici. Difficile pensare che Palindrome Hunches possa
invertire la rotta, come del resto non lo aveva fatto il predecessore Oh!
Mighty Engine, primo lavoro ad approdare presso la Brushfire di Jack
Johnson senza cedere di un millimetro sulla linea severa di Halstead.
Le
sue ballate continuano a crogiolarsi in uno spleen agrodolce che rifletterà per
sempre il marchio di Nick Drake e Neil Young, stelle polari che ricorrono più
volte nella catalogazione della sua musica. Oggi più che mai dovremmo aggiungere,
perché messa da parte quella timida esuberanza pop dell'esordio Sleeping on Roads
e asciugato ulteriormente il clima del citato Oh! Mighty Engine, Palindrome Hunches
si muove su coordinate austere, in questo senso la quintessenza dello stile di
Neil Halstead, condotto fino alle sue estreme conseguenze. Melodie dolcissime
e autunnali, canto impalpabile e soffuso che sta da qualche parte fra le radici
british e il collega americano Mark Kozelek dei Red House Painters (non a caso
affini ai Mojave 3 nella definizione di un certo indie folk per antonomasia),
l'Halstead che ci ritroviamo oggi per le mani costruisce le sue nenie sul gioco
di specchi fra chitarre acustiche, violino (Ben Smith) e pianoforte (l'ottimo
Paul Whitty), annullando o quasi i sobbalzi ritmici di contrabasso e percussioni
sin dalle prime note di Digging Shelters e
Bad Drugs and Minor Chords.
Questa
uniformità sarà il limite e il pregio maggiore allo stesso tempo di Palindrome
Hunches, disco da placido crepuscolo che stana melodie commoventi e di una semplicità
disarmante (Spin the Bottle, Full
Moon Rising) tanto quanto una serie di ottenebrate ballate in minore
(la magnifica Tied to You, dove l'intesa strumentale
raggiunge l'apice più toccante delll'album) che sono un atto di amore assoluto
per quella rigorosa linea folk che passa dall'onnipresente Nick Drake a Bert Jansch.
Questa operazione di intransigente chiusura è forse il sintomo di un lavoro che
mai come in questa occasione ha voluto dare risalto alla voce e alle liriche di
Neil Halstead, conservando inoltre un feeling palesemente live nelle sedute di
registrazione, che accresce l'intensità delle interpretazioni. Sgorgano così oasi
pianistiche di grande emozione (la stessa Palindrome Hunches e una Hey
Daydreamer che aggiunge del pop nell'inquietudine di Neil Young) per
un album che chiede di essere accolto con delicatezza e predisposizione d'animo.