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psychedelic gospel di
Fabio Cerbone (07/11/2012)
C'è
da capirla la New West: in mancanza di nuovi talenti che possano ridare slancio
alla scena Americana, recinto entro il quale storicamente l'etichetta si è sempre
mossa, e fatti i dovuti inchini ai diversi big acquisiti negli anni (da John Hiatt
a Steve Earle il luogo è un rifugio sicuro per molti songwriter in età matura),
ultimamente il suo obiettivo pare essere diventato quello di una rincorsa spasmodica
alle più quotate concorrenti in campo indie. Non avendo però l'esperienza sul
campo di Matador, Domino e Sub Pop o la scaltrezza di Jagjaguwar, Yep Roc e Bella
Union, l'effetto è quanto meno schizofrenico. Non è bastato infatti il recente,
irritante cambio di rotta dei sudisti Ponderosa che ora tocca ai texani Grandfather
Child, un quartetto fulminato sulla via della cosiddetta "sacred steel
music", che ha intenzione nell'omonimo esordio di imbrattarsi le mani con
parecchio soul psicehdelico d'annata, divagazioni southern blues e gospel assortite,
strumentali che finiscono nella più pura follia lisergica.
Tutto parte
da Lucas Gorham, ragazzo di Houston che abbandona il più canonico rock'n'roll
di gioventù e si invaghisce della lap steel, così come viene suonata da Robert
Raldolph, Campbell Brothers e altri protagonisti della scena gospel moderna. Chiuso
il periodo di tirocinio e dominato lo strumento, si inventa i Grandfather Child
con altri giovani e promettenti musicisti locali, compreso Robert Ellis
al basso (suo l'esordio country del 2012 con lo strepitoso Photographs), e gli
amici Geoofrey Muller alle chitarre e Ryan Chavez alla batteria. Allargato il
team del disco ad una decina di collaborazioni, Grandfather Child è un esordio
che spiazza e può persino incuriosire per l'originalità della band nel distinguersi
dal magma di produzuoni indie rock, ma si schianta infine rovinosamente su nove
episodi ondivaghi, pasticciati e senza anima.
Ciò che manca è proprio
una direzione, un senso della rotta: se Can't Seem to
Forget apre i battenti con sofisticazioni new-soul, dietro l'angolo
c'è una sarabanda sudista come Gonna Have Ourselves a
Vision, la quale pare una versione scombinata dei North Mississippi
Allstars, compreso il finale parossistico. Di questo passo si attraversa il funky
di Magical Words e la psichedelia hard blues
di New Orleans, lo strampalato sperimentalismo
di I Would Like to Thank The Universe/ Planet Earth (chitarre al contrario
che manco nel '67…), ritornando poi al morbido soul di Across
Our Minds (in fondo il tratto migliore del gruppo, se non altro perché
esalta le torride tonalità black della voce di Gorahm) e al gospel elettrico di
Waiting Fo You, prima di abbattersi sull'ennesima
variante da delta blues impazzito (Ride That Train) e sciogliersi in una
melassa soul pop intitolata It Shines On. Tante suggestioni, un sound raffinato
e molte manipolazioni, ma di canzoni neanche l'ombra: così non ci caschiamo.