File Under:
power pop, garage di
Fabio Cerbone (11/09/2012)
Una
shakerata di power pop e garage rock giunto direttamente dalla metà degli anni
sessanta: Leaving Atlanta è tutto un susseguirsi di up tempo, come
direbbero gli americani, che si pestano i piedi con chitarre squillanti e l'intenzione
di imbastire una festa in piena regola. In fatto di revival rock è certamente
una delle sorprese della stagione, non fosse che oltre all'eccitante superficie,
allo sguaiato, spassoso schiamazzo che Jesse Smith imbastisce con i suoi "gentiluomini",
resta attaccato addosso assai poco. Le intenzioni del disco peraltro sono chiarissime:
questo è un party dove è richiesto un certo sguardo d'intesa, un amore incondizionato
per il rock'n'roll nella sua forma più scanzonata e innocente, anche quando di
innocenza potrebbe non essercene più. Si, perché suonare come una versione aggiornata
dei Flaming Groovies, che a loro volta nel '76 suonavano come una riedizione dei
Beatles del '66, è tutto meno che un gesto di immacolata purezza.
Semmai
è la dichiarazione ammirevole di voler restare fuori dai giochi e non preoccuparsi
della contemporaneità: Jesse Smith è partito con il punk ritrovandosi presto a
condividere amori segreti nei Carbonas, prima di formare questo progetto parallelo:
più Kinks e garage soul che altro, seguendo una linea che in stagioni recenti
altre band del sottobosco sudista hanno cavalcato, a cominciare da quei Reigning
Sound che spesso vengono scomodati nei paragoni. Ma Leaving Atlanta, secondo lavoro
su Douchemaster dopo l'esordio Introducing Gentleman Jesse & His Men, ha un piglio
più spensierato rispetto alla formazione di Greg Cartwright, a cominciare dalla
voce di Smith: squillante, nervosa e fanciullesca dalle prime saltellanti note
di Eat Me Alive e I'm
Only Lonely, si lascia trascinare dal jingle jangle delle chitarre,
da un pop chitarristico che echeggia irrimediabilmente melodie sixties (Take
It Easy on Me, Careful What You Wish For)
senza porre filtri moderni, puntando tutto sull'eccitazione del momento. La formula
funziona proprio per quegli effetti esteriori, immediati che si ricordavano in
precedenza: provate a stare fermi sugli schiaffi di You
Give Me Shivers o nel turbinio di riff allestito per Frostbite,
qui veramente ai limiti della contraffazione Flaming Groovies.
È tuttavia
il limite invalicabile di Leaving Atlanta, che se proprio deve mettere il naso
fuori dal suo comodo guscio anni 60 (Covered Up My Tracks è ancora roba
riciclata a dovere), lo fa spostandosi di un decennio o poco più, mischiandosi
con la "nuova onda" del primo scalciante Elvis Costello o di certi eroi minori
del pub rock inglese (Word Gets Around e We
Got to Get Out of Here sarebbero piaciute a Dave Edmunds e Nick Lowe
per arricchire il repertorio dei misconosciuti Rockpile). Sempre che non covenga
a questo punto mettere addirittura la retromarcia: Rooting
for the Underdog è infatti la personale riverniciatura di Long Tall
Sally ad opera di Gentleman Jesse, sperando che Little Richard non si incazzi.