File Under:
indie-folk di
Fabio Cerbone (31/05/2012)
Viene
quasi da pensare, leggendo le note biografiche di una vita sospesa su un filo,
che portare un cognome così sia una sorta di penitenza, un contrapasso che ha
del tragico: Simone Felice deve averci pensato qualche volta, facendo il
riassunto delle sue esperienze. L'esordio in prima persona - dopo essersi annulato
prima nel fortunato progetto familiare dei Felice Brothers, quindi nel binomio
artistico con Robert "Chicken" Burke ribattezzato The Duke & The King - accumula
buona parte del dolore e delle bastonate ricevute nei suoi trentasei anni di vita,
esorcizzandoli in dieci ballate fragili come un bicchiere di cristallo. È l'anima
stessa di Simone Felice ad essere probabilmente concepita in tal modo: a dodici
anni rischia di andare all'altro mondo per un aneurisma cerebrale e soltanto nel
2010 sfiora ancora la morte con un'operazione a cuore aperto, causa una malformazione
congenita alla valvola dell'aorta; nel mezzo c'è stata anche la terribile punizione
della perdita del primo figlio, a cui Simone e la sua compagna hanno saputo reagire
con una nascitura, Pearl, che ha riportato gioia in famiglia.
Da questa
autentica tempesta emozionale era logico attendersi un disco che riflettesse gli
abissi sentimentali dell'uomo: l'omonimo album, concepito in più luoghi, fra l'accogliente
pace agreste delle Catskills Mountains da cui proviene Simone, una vecchia chiesa
di Londra, un appartamento di Manhattan e i Dreamland Studios di Woodstock, tiene
a bada l'intero subbuglio interiore con una serenità folk (il finale con Splendor
In The Grass la sublimazione del tutto) tanto pura quanto un po' troppo
artefatta in certe sue evoluzioni. Certamente disadorno nelle atmosfere e angelico
nella costruzione delle melodie, il disco alterna oasi acustiche che hanno il
merito di esaltare l'armonia raggiunta dal protagonista (la sontuosa tensione
di New York Times, la dolcissima preghiera
per organetto soul di Stormy-Eyed Sarah, una
Dawn Brady's Son degna di Cat Stevens) ad
altre nenie in cui la malinconia ha il totale sopravvento, spingendo la canzone
in un cul de sac (le simboliche Courtney Love
e Ballad Of Sharon Tate, che fin dai titoli
sembrano scegliere personaggi intrinsecamente sfortunati e molto controversi per
esorcizzare la sofferenza).
Mantenendo comunque un'uniformità di espressioni,
Simone Felice raggiunge l'obiettivo di una raccolta fra le più coerenti della
sua carriera (caratteristica che certamente non aveva la creatura The Duke & The
King), sostenuto anche dalle collaborazioni del fratello James e di Ben Lovett
dei Mumford & Sons, ma a volte la stucchevole presenza dei cori, fanciullesca
e sfarzosa a seconda degli umori, trasforma canzoni quali Hey
Bobby Ray e You & I Belong (tra
le melodie più solari dell'intero progetto) in un pop dolente e un po' fuori dalle
righe. Solo per cuori infranti.