Recensendo Fade,
tredicesimo (ma il conto è soggetto a variabili) album in studio del trio
di Hoboken, mi permettevo di scherzare sulla longevità di un progetto
nato quasi trent’anni prima e sopravissuto all’alternarsi delle stagioni
con una lucidità che si poteva solo invidiare. Mi permettevo anche di
definirli i “nonni dell’indie rock”, sicuro che Ira Kaplan non se la dovesse
prendere a male (e, comunque, abbastanza sicuro che non conoscesse il
mio indirizzo). Era il 2013. In questi dieci anni, i “nonnetti” hanno
trovato il tempo di partorire ancora 5 album, più un live - per inciso,
il primo della loro carriera - e chissà che altro (ah, sì: anche una collaborazione
con David Byrne in un disco tributo a Yoko Ono, l’anno passato). Ora,
dicessi che sono stupito del ritrovarmi qua dieci anni dopo a scrivere
ancora di loro, mentirei. Se c’è un gruppo di sopravvissuti alla stagione
d’oro dell’underground USA (be’, la seconda stagione d’oro, se contiamo
come prima l’epoca di Nuggets e delle garage band) in grado di non suonare
affatto come dei sopravvissuti, quelli sono proprio loro.
Enormemente influenti senza essere mai arrivati davvero ad affacciarsi
al mainstream, gli Yo La Tengo hanno avuto dalla loro il tempo
e le condizioni ideali per dedicarsi alla musica senza pressioni esterne,
aspettative di grandi riscontri commerciali o altri di quei fattori destabilizzanti
che hanno prematuramente inaridito o fatto deflagrare tanti dei loro coetanei.
Il fatto che il cuore della band sia costituito da una coppia di marito
e moglie, incredibilmente, ha rappresentato un altro punto di forza. Eccoli
qua, dunque, quando solo un anno li separa dai festeggiamenti per le 40
candeline, con uno dei loro dischi più riusciti. Non è un’affermazione
buttata lì: basta un rapido ascolto al brano che apre l’album, Sinatra
Drive Breakdown – in pratica i Can che fanno fare una passeggiata
a Syd Barrett - per capacitarsi subito dello stato di grazia in cui sono
state registrate queste nove canzoni. Dischi brutti non mi risulta che
ne abbiano mai fatti uscire, gli Yo La Tengo, però è anche vero che, tra
album di cover e colonne sonore di improbabili documentari francesi, non
sai mai cosa aspettarti da un loro progetto.
Questa volta la parola chiave è equilibrio: sarà forse l’avere registrato
e mixato tutto nel proprio studio casalingo, per la prima volta senza
un produttore esterno, ma davvero i 48 minuti di attenzione che ci chiede
This Stupid World sono spesi senza un attimo di noia. Le due anime
del gruppo, quella sognante delle ballate psichedeliche un po’ decentrate
e quella rumorista delle jam strumentali sospese tra divagazioni space-rock
e feedback vari, convivono senza infastidirsi, a volte nello stesso brano,
che sia l’ennesimo tentativo (riuscito) di rifare i Velvet del terzo album
(Fallout) oppure la volontà di divagare nella circolarità folk
disturbata di Tonight’s Episode o di prenderci per mano e portarci
tra le bancarelle di canditi delle acustiche Aselestine (cantata
da Georgia Hubley) e Until It Happens. Fino alla terna conclusiva,
che prima gioca con il fantasma dello shoegaze (Brain Capers) e
poi lo trasforma in carne, rumorosa e catartica, nel viaggio noise di
This Stupid World, per poi imprigionarlo
nella rarefazione ambient/psichedelica della conclusiva Miles Away.
Altro che magnifici quarantenni: la sensazione è quella di trovarsi davanti
i frutti maturi di un’ispirazione che è ancora ben lontana dall’esaurirsi,
nonostante una carta d’identità che, nel caso di Kaplan, riporta come
anno di nascita il 1957.