Sempre difficile relazionarsi con un’uscita postuma,
collocarla criticamente nello spazio che merita all’interno dell’opera
di un artista. Ci aiuta, nel caso di Bird Machine, la distanza
temporale. Quattordici anni sono trascorsi da quando queste tracce sono
state messe su nastro, uno in meno da quando il suo autore ha lasciato
questo mondo – un tempo sufficiente a lasciar sedimentare il ricordo,
a far depositare la polvere del tempo sulle emozioni che una perdita,
violenta ma forse non inattesa, veicola. Alla fine, la domanda cui ha
senso cercare risposta è una: possiamo considerare Bird Machine il
quinto album di Sparklehorse, cioè il punto di arrivo di una traiettoria
desiderata, o piuttosto abbiamo davanti un omaggio post mortem arbitrario,
composto di frammenti a cui si è cercato di dare una coerenza? Dando fede
alle note stampa e alle dichiarazioni di chi ha curato il progetto (Matt
Linkous, che di Mark è il fratello), gli interventi di post-produzione
ci sono stati ma si è cercato di non agire in modo invasivo: si è aggiunta
principalmente qualche traccia vocale, cortesia dello stesso Matt, dell’altra
sorella Melissa e di Jason Lytle dei Grandaddy.
Resta comunque difficile stabilire se queste canzoni avrebbero visto la
luce in questa forma (o perlomeno in una forma affine a questa) o se,
al contrario, il loro autore ci avrebbe messo mano per rivoltarle pesantemente
o, addirittura, le avrebbe scartate e lasciate a languire per sempre in
qualche cassetto. Il cuore del disco pulsa intorno ai brani registrati
con Steve Albini a Chicago nel 2009 per un progetto di album che lasciò
Linkous insoddisfatto e lo spinse a tornare a lavorare in solitudine nei
suoi Static King Studios in North Carolina. Quello fu un periodo comunque
fertile, perché negli stessi mesi prendeva forma il disco con Danger Mouse
che uscirà poco dopo il suicidio di Linkous, Dark Night of the Soul.
A leggere le dichiarazioni rilasciate alla stampa dal premuroso fratello,
l’album che aveva in mente Mark avrebbe dovuto marcare una scelta – rivoluzionaria
per un maniaco dello studio di registrazione come lui - di semplicità
e immediatezza, un disco pensato come omaggio alla musica dei Kinks (!)
e di Buddy Holly (!!).
Questa semplicità e quest’attitudine verso la pop song camuffata scorrono
effettivamente sottotraccia lungo Bird Machine. Le troviamo nella
melodia folk di My Kindly Ghost, nella
ballata glam Falling Down, nella autoironia punk di Fucked it
Up (“Avrei potuto essere una rock’n’roll star/Ma sono stato davvero
bravo a mandare tutto a puttane”), negli echi lennoniani di Hello
Daddy e in quelli gentilmente psichedelici che avvolgono l’intero
album. Ma questo è un disco targato Sparklehorse e le cose non possono
essere semplici come appaiono. Dopotutto Mark Linkous è quello che, dopo
i complimenti della sua casa discografica per il brano Chaos of the
Galaxy/Happy Man (un potenziale hit single da My Morning Spider),
decise di sovraincidervi un campionario di distorsioni che l’avrebbe tenuto
lontano da ogni rispettabile scaletta radiofonica.
Questo gusto della martellata dadaista, del gesto scomposto che dà un
aspetto sghembo e traballante a melodie altrimenti lineari e fischiettabili
si rintraccia anche qui, a segnare una linea di continuità e a ribadire
un marchio di originalità. Più che nella trascurabile It Will Never
Stop, lo troviamo nella qualità ectoplasmatica di O
Child, nel brodo lo-fi in cui viene cucinata Chaos of the
Universe, nel caos calcolato con cui rilegge Listening to the Highsons
di Robyn Hitchcock. Alla fine, davanti alla bellezza di (buona) parte
di Bird Machine, si può essere solo riconoscenti alla volontà di
chi ha riportato alla luce questi 40 minuti di musica fragile e splendente.