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The Bad Ends
The Power and The Glory
[New West 2023]

Sulla rete: thebadends.com

File Under: Ultracinquantenni al college (rock)


di Gianfranco Callieri (25/01/2023)

Bill Berry non toccava più le bacchette da ormai 25 anni, e cioè da quando nel 1997, dopo essere due anni prima collassato sul palco a causa di un aneurisma cerebrale, aveva preso la decisione di farsi da parte, di fatto anticipando di 14 anni la dissoluzione dei R.E.M. (anche) da lui fondati e vivendo il proprio «ritiro» con estrema serenità. Le cose sono cambiate nel momento in cui un gruppetto di simpatiche cariatidi di Athens, Georgia (cittadina natale del batterista), tra le quali il bassista Dave Domizi (proprietario di un locale negozio di chitarre), il cantante di una cult-band indigena (Mike Mantione, un tempo alla guida dei Five Eight) e altri due longevi membri della scena indipendente del posto, gli ha recapitato quasi per scherzo un video dei loro «progressi», vedendoselo poi apparire a sorpresa, in studio, per unirsi alle prove.

Abbastanza autoironici da sfoderare una ragione sociale come The Bad Ends (alla lettera, «le brutte fini», cioè a dirsi, guardate un po’ in che modo ci siamo ridotti), il neonato quintetto ha poco alla volta messo in piedi un album destinato a destare curiosità, ovviamente, per la passata celebrità di Berry, ma comunque interessante e divertente anche per chi dei R.E.M., peraltro piuttosto lontani (se non in rari episodi degli esordi) dalla musica contenuta in The Power And The Glory, non abbia mai ascoltato nulla.

Per apprezzare i Bad Ends, infatti, sarebbe meglio avere un’infarinatura sui primi due dischi dei Big Star e sul loro squillante power-pop tra Beatles, Byrds, riff assassini e R&B di Memphis: non saranno esattamente il prototipo dei nove brani inclusi nella scaletta dell’opera qui descritta, in genere assai più monotematica di quanto non fossero i suoi (dichiarati) numi tutelari, però aiuterebbero a districarsi tra le decine di allusioni dell’esplosiva All Your Friends Are Dying, brano dove la progressiva scomparsa di quasi tutti i componenti del gruppo poc’anzi citato e l’occasione di un concerto in cui il batterista Jody Stephens - unico membro superstite della formazione dei Big Star - si trovò a suonare con pezzi di R.E.M., dB’s e Let’s Active diventa un pretesto per riflettere, con grande umanità, sullo scorrere del tempo e sulla persistenza delle passioni di gioventù.

Il power-pop graffiante di All Your Friends Are Dying si abbina alla perfezione a quello ancor più brusco e riuscito dell’iniziale Mile Marker 29, introducendo una dimensione di abbandono rockista in realtà confermata soltanto dal ruvido punk’n’roll di The Ballad Of Satan’s Bride (quest’ultima soprattutto una scusa per mostrare l’intatta abilità di Berry nel martellare il suo strumento), o al limite dai Byrds sotto steroidi di una Thanksgiving 1915 che a molti, nondimeno, sembrerà pescata di peso dal repertorio di Matthew Sweet, Tommy Keene, Freedy Johnston o Marshall Crenshaw (si può scegliere a piacimento). Mentre i brani più movimentati risultano essere - cosa al giorno d’oggi nient’affatto scontata - anche i più coinvolgenti, quando i tempi rallentano, viceversa, la scrittura di The Power And The Glory si rivela invece più legnosa: se Little Black Cloud evoca gli arpeggi celestiali (e influenzati da Marc Bolan) di Chris Bell grazie ai tocchi misurati della pedal-steel di John Neff (Drive-By Truckers), la bolla psichedelica di Honestly, gli intrecci tra voce e riverberi dell’ultima New York Murder-Suicide o la stralunata Ode To Jose, interludio strumentale alla Lee Hazlewood, non vanno letteralmente da nessuna parte.

Il rischio di apparire anacronistici è dietro l’angolo, e in effetti i Bad Ends rimandano talvolta, più che al college-rock dei Gin Blossoms, al dopolavoro tanto esuberante quanto approssimativo dei Rock Bottom Remainders di Stephen King, Scott Turow e Matt Groening, tutti eminenti «volontari» del rock & roll con un altro e più serio lavoro alle spalle. Ma dove sta il problema, quando The Power And The Glory si propone soprattutto di omaggiare con umiltà e rispetto un immaginario sonoro importantissimo anche per molti di noi? Non sempre c’è bisogno di rincorrere i dischi ineccepibili: a volte basta accontentarsi di gesti d’amore compiuti con sincerità.


    


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