Bill Berry non toccava più le bacchette da
ormai 25 anni, e cioè da quando nel 1997, dopo essere due anni prima collassato
sul palco a causa di un aneurisma cerebrale, aveva preso la decisione
di farsi da parte, di fatto anticipando di 14 anni la dissoluzione dei
R.E.M. (anche) da lui fondati e vivendo il proprio «ritiro» con estrema
serenità. Le cose sono cambiate nel momento in cui un gruppetto di simpatiche
cariatidi di Athens, Georgia (cittadina natale del batterista), tra le
quali il bassista Dave Domizi (proprietario di un locale negozio di chitarre),
il cantante di una cult-band indigena (Mike Mantione, un tempo alla guida
dei Five Eight) e altri due longevi membri della scena indipendente del
posto, gli ha recapitato quasi per scherzo un video dei loro «progressi»,
vedendoselo poi apparire a sorpresa, in studio, per unirsi alle prove.
Abbastanza autoironici da sfoderare una ragione sociale come The Bad
Ends (alla lettera, «le brutte fini», cioè a dirsi, guardate un po’
in che modo ci siamo ridotti), il neonato quintetto ha poco alla volta
messo in piedi un album destinato a destare curiosità, ovviamente, per
la passata celebrità di Berry, ma comunque interessante e divertente anche
per chi dei R.E.M., peraltro piuttosto lontani (se non in rari episodi
degli esordi) dalla musica contenuta in The Power And The Glory,
non abbia mai ascoltato nulla.
Per apprezzare i Bad Ends, infatti, sarebbe meglio avere un’infarinatura
sui primi due dischi dei Big Star e sul loro squillante power-pop tra
Beatles, Byrds, riff assassini e R&B di Memphis: non saranno esattamente
il prototipo dei nove brani inclusi nella scaletta dell’opera qui descritta,
in genere assai più monotematica di quanto non fossero i suoi (dichiarati)
numi tutelari, però aiuterebbero a districarsi tra le decine di allusioni
dell’esplosiva All Your Friends Are Dying,
brano dove la progressiva scomparsa di quasi tutti i componenti del gruppo
poc’anzi citato e l’occasione di un concerto in cui il batterista Jody
Stephens - unico membro superstite della formazione dei Big Star - si
trovò a suonare con pezzi di R.E.M., dB’s e Let’s Active diventa un pretesto
per riflettere, con grande umanità, sullo scorrere del tempo e sulla persistenza
delle passioni di gioventù.
Il power-pop graffiante di All Your Friends Are Dying si abbina
alla perfezione a quello ancor più brusco e riuscito dell’iniziale Mile
Marker 29, introducendo una dimensione di abbandono rockista
in realtà confermata soltanto dal ruvido punk’n’roll di The Ballad
Of Satan’s Bride (quest’ultima soprattutto una scusa per mostrare
l’intatta abilità di Berry nel martellare il suo strumento), o al limite
dai Byrds sotto steroidi di una Thanksgiving 1915 che a molti,
nondimeno, sembrerà pescata di peso dal repertorio di Matthew Sweet, Tommy
Keene, Freedy Johnston o Marshall Crenshaw (si può scegliere a piacimento).
Mentre i brani più movimentati risultano essere - cosa al giorno d’oggi
nient’affatto scontata - anche i più coinvolgenti, quando i tempi rallentano,
viceversa, la scrittura di The Power And The Glory si rivela invece
più legnosa: se Little Black Cloud evoca gli arpeggi celestiali
(e influenzati da Marc Bolan) di Chris Bell grazie ai tocchi misurati
della pedal-steel di John Neff (Drive-By Truckers), la bolla psichedelica
di Honestly, gli intrecci tra voce e riverberi dell’ultima New
York Murder-Suicide o la stralunata Ode To Jose, interludio
strumentale alla Lee Hazlewood, non vanno letteralmente da nessuna parte.
Il rischio di apparire anacronistici è dietro l’angolo, e in effetti i
Bad Ends rimandano talvolta, più che al college-rock dei Gin Blossoms,
al dopolavoro tanto esuberante quanto approssimativo dei Rock Bottom Remainders
di Stephen King, Scott Turow e Matt Groening, tutti eminenti «volontari»
del rock & roll con un altro e più serio lavoro alle spalle. Ma dove sta
il problema, quando The Power And The Glory si propone soprattutto
di omaggiare con umiltà e rispetto un immaginario sonoro importantissimo
anche per molti di noi? Non sempre c’è bisogno di rincorrere i dischi
ineccepibili: a volte basta accontentarsi di gesti d’amore compiuti con
sincerità.