Durante i controversi anni Ottanta si era incominciato
a dibattere sul futuro della musica rock. Si usciva dalla furia nichilista
del punk e le nuove generazioni non sembravano all’altezza dei miti dei
sixties, i quali iniziavano ad avere i capelli bianchi ma continuavano
a stare sulla scena pur non avendone più, secondo molti, titolo. Hugo
Race in quegli anni iniziava la sua carriera, dapprima nei Bad Seeds
e poi nei Wreckery, band da lui stesso fondata a Melbourne e siamo certi
che all’epoca neppure si ponesse il problema. Da allora abbiamo scoperto
che si può suonare una chitarra elettrica ed incendiare un palco, rimanendo
ispirati e diversamente rivoluzionari, anche se si sono abbondantemente
superati gli anta. Il vero rischio è però quello di restare intrappolati
nei personaggi giovanili, diventare ostili ai cambiamenti e fingere che
il passare del tempo sia una faccenda che riguarda altri. Da credibili
a patetici, a ben guardare, superata una certa età, è un attimo.
La forza di un’artista è invece quella di attingere con spirito critico
al proprio vissuto, di “invecchiare” assieme alla propria musica, prendendo
atto che andando avanti con l’età si diventa altro e non necessariamente
qualcosa di peggio, anzi. In questo quadro, Hugo non si colloca certo
nella categoria “giovani a prescindere” e il suo nuovo lavoro, sul filone
del precedente Taken
by the Dream, altro non è se non l’elaborazione di quarant’anni
di dischi, concerti, esplorazioni, viaggi e passioni di un uomo e di un
musicista che non ha abiurato le proprie idee ma le ha pian piano traghettate
in una nuova era, assecondando il progressivo inevitabile divenire. Un
po' come il suo amico e mentore Nick Cave, marchia la sua musica con il
suo metodo e con il suo stile ma ci mette la classe, la testa e l’esperienza
del cinquantanovenne subentrato all’acerbo ventenne tutto preso a rincorrere
i suoi sogni rock’n’roll.
Once Upon a Time in Italy contiene perciò le impronte dei
progetti passati ma sfascia e ricompone, con ingegno, le trame e gli orditi
già intrecciati. Le atmosfere sono sempre cupe e fascinose, il blues modernista
ed ipnotico detta ancora la linea, così come la spiccata attitudine scenografica
dei brani continua a prolungare gli sguardi, portandoli oltre i confini
del visibile ma è la capacità di scendere in profondità nello sviluppo
della narrazione, di ammantare il tutto con un’aura di sacralità che segna
la netta distanza dal giovanotto che faceva da spalla a Nick “the Stripper”.
Hugo, come direbbe Tom Waits, è uno che ha il voodoo. Lo ha sempre avuto
e la voce, i suoni, la dimensione intima e liturgica in cui trovano sviluppo
le canzoni, ora più che mai ci riconducono alla sua spiritualità, al suo
forte legame con le radici e con l’essenza della musica. Per essere più
chiari, non c’è dubbio che egli sia quello degli esordi, di Valley of
Light, dei Dirtmusic e di altri cento progetti.
È tutto questo ma in maniera differente. E in questa trasformazione un
ruolo notevole l’hanno avuto i Fatalists (Diego Sapignoli e Francesco
Giampaoli), qui ancora una volta al suo fianco, e l’Italia, terra che
lo ha a lungo ospitato. Non è un caso, infatti, che assieme ai 10 pezzi
ufficiali dell’album, abbia aggiunto un EP (C’era una Volta in Italia)
con 4 brani in italiano e che abbia voluto citare, al di là del già eloquente
titolo, il cinema nostrano ed il maestro Morricone.
Il disco è di una bellezza segreta, sotterranea. Bisogna ripulire le perle
che lo compongono che vederle brillare. Musicalmente approfondisce la
componente folk, deprivandola dell’aspetto rurale. La cover di Hurdy
Gurdy Man di Donovan è l’elemento classico, mentre la versione contemporanea
trova la miglior forma nel duetto con Georgia Knight (Gold Digger)
e nei ceselli articolati dal violino di TJ Howden che emergono già nella
desertica Atomized. Mining the Moon e San Leone fluttuano
nelle stesse acque incantate in cui era solito navigare il già citato
Tom Waits, mentre la title track è l’omaggio definitivo al Bel Paese e
fa tramontare la luce su un disco di suggestiva eleganza.