Angel Olsen è una importante, su questo non
possono nutrirsi troppi dubbi. Ottima autrice, grande interprete e titolare
di una vicenda personale sufficientemente tormentata da stimolare in automatico
l’interesse, forse anche un po' morboso, di una nutrita pattuglia di fan,
per lo più radicata nell’ambito della scena alternativa americana. Il
rischio di vedersi appiccicata irreversibilmente l’etichetta di musicista
di culto, forse l’aveva spinta di recente, magari inconsciamente, a tentare
di allargare il proprio consenso, con il risultato di semplificare troppo,
pur senza mai banalizzare, la solida architettura cantautorale che, sin
dagli esordi, aveva vestito con grande eleganza le sue canzoni. Big
Time invece, grazie anche al contributo in veste di co-produttore
di Jonathan Wilson, uno con le stigmate del predestinato, di certo
poco incline all’ovvio o al popolano, si riavvicina alle radici, rivisitando
la tradizione con rinnovato gusto estetico.
È una sorta di viaggio a ritroso alla ricerca di concetti basilari ma
è anche un percorso dinamico che privilegia il calore dei suoni e delle
parole. Sin da subito, da All the Good Times e dall’omonimo Big
Time, brani d’apertura, si avverte questa impostazione mainstream
che si adatta alla perfezione alla natura intimista dei brani. Angel sceglie
il linguaggio a lei più congeniale per raccontare i recenti passaggi della
sua vita, dalla sua nuova storia d’amore, al suo coming out e alla morte
improvvisa dei genitori, creando delle modalità espressive che trovano
una sintesi unica tra l’immediatezza e la spontaneità del lessico della
provincia americana e una poetica docile e raffinata che conferisce pathos
alle liriche. Cerca e trova schemi lineari e rassicuranti che riesce a
riempire, con misurato garbo, della sua stessa essenza. È country music
di gran classe, che vibra in profondità e scivola con la dolcezza di una
carezza, che si arricchisce, in qualche passaggio, di umori soul e gode
spesso dello sviluppo narrativo tipico della tradizione folk, alternando
panorami agresti a più levigati scenari urbani.
Angel, infatti, sembra un po' cogliere l’attitudine musicale di Gillian
Welch, la fragilità di Victoria Williams, la cupa irrequietudine di Mary
Gauthier e la propensione onirica di Hope Sandoval, ma porta tutto questo
nella propria dimensione, con stile ed autenticità. Il risultato d’insieme
è ottimo, al punto che è complicato scegliere gli episodi migliori tra
i dieci brani di questo album. L’acustica All
the Flowers seduce con nostalgica leggiadria, Ghost On
e This Is How It Works hanno la forza dei classici, Right
Now cresce attimo dopo attimo ed è uno dei pezzi in cui si
disvela con maggior successo l’apporto di Jonathan Wilson, Through
the Fires e Chasing the Sun, chiudono il disco con suggestioni
jazz, fuori tempo e magari fuori contesto ma che accentuano il senso di
malinconia che pervade, con romantico afflato, l’intero progetto.
Forse qualcuno, non senza apparente motivo, avrebbe preferito un lavoro
in studio meno “invasivo” e la ricerca di sonorità più naturali ed asciutte.
Per quanto ci riguarda, come già accennato, gli arrangiamenti rappresentano
invece un valore aggiunto e il tratto identitario di un album, senza mezzi
termini, consigliatissimo.