Da un musicista cresciuto artisticamente nella culla
dell’avanguardia rock newyorchese ci si potrebbero aspettare scelte men
che mai coraggiose e stimolanti? Chris Forsyth, chitarrista originario
di Philadelphia, ma connesso strettamente con la scena sperimentale di
Brooklyn e più in generale con quel mondo al confine tra moderno underground
americano, art rock e improvvisazione psichedelica, ha una discografia
“complicata” e ricca di ramificazioni, avendo pubblicato in passato per
etichette inappuntabili come Paradise of Bachelors e Northern Spy. Il
tratto che unisce tutto è quella naturale attitudine alla condivisione,
per chi come lui è portato a incrociare le sue idee musicali con colleghi
dalle più disparate provenienze.
Alunno di Richard Lloyd dei Television, affascinato tanto dalle trame
più elettriche quanto dalle evoluzioni del folk lisergico di fine sixties,
il nostro protagonista si è creato un seguito in casa No Quarter, realizzando
tre dischi con il progetto Chris Forsyth & the Solar Motel Band, a partire
da Intensity Ghost del 2014, tornando infine sui passi solisti
con il qui presente Evolution Here We Come. Sette brani
in prevalenza strumentali, ma con due sorprese al centro della scaletta,
direttamente dalla voce dello stesso Forsyth, più in generale un viaggio
interstellare che parte sulle ritmiche pulsanti e kraut rock di una Experimental
& Professional degna seguace del verbo Can, con la presenza
dei sintetizzatori di Marshall Allen della Sun Ra Arkestra, e si chiude
attraversado i quattordici minuti spaziali di una sintomatica Robot
Energy Machine.
Nel mezzo una ricerca sullo strumento chitarra che non eccede mai in protagonismi
inutili, ma cerca piuttosto orditi, viluppi e dialoghi fra i diversi collaboratori
chiamati in studio, dalle presenze rivelatrici di Douglas McCombs (Tortoise)
al basso e di Ryan Jewell (già con Ryley walker e Rose City band) alla
batteria fino ai ricami del polistrumentista Dave Harrington, diviso fra
piano, organo e pedal steel. L’impasto è melodico e sperimentale al tempo
stesso, attraversando territori rock anche convenzionali, come accade
in Heaven for a Few, ma affiancandoli a fughe verso l’ignoto psichedelico,
dallo stridulo riff di una Bad Moon Risen ancora avvolta da un
incedere ritmico cosmico, alla più estatica Long
Beach Idyll, con tanto di flauto e riverberi accentuati dalle
chitarre stesse, che immaginiamo affascinerebbe il citato collega Ryley
Walker, nome che in più di un’occasione qui sovviene come parallelo artistico.
Un paio infine, come anticpato gli episodi cantati, che entrambi collocati
al centro dell’album spezzano favorevolmente l’ambientazione più avanguardistica
dell’intero disco: You’re Going To Need Somebody,
con la partecipazione di Linda Pitmon ai cori (e fa capolino anche Steve
Wynn), è un scintillante brano dalle rifrazioni garage rock, che traccia
una linea sull’orizzonte che va dai Grateful Dead ai Television, mentre
la più enigmatica Hey, Evolution abbraccia il nuovo folk rock psichedelico
che in queste stagioni ha avuto tra i suoi migliori ambasciatori Steve
Gunn.
In equilibrio inviabile tra ricerca strumentale e classicismo rock, Evolution
Here We Come è un disco che dispiega tutto il suo incanto.