Florida, la canzone che apre il debutto di
Thomas Dollbaum è un piccolo saggio in musica di tensione e liberazione:
comincia masticando parole in un flusso di coscienza arduo da decifrare
(per fortuna, abbiamo davanti i testi) e passo passo si apre in un crescendo
in cui un controcanto femminile e lo strumming della chitarra acustica
fanno esplodere un primo climax, poi il brano si chiude di nuovo in un
flebile mugugno e quindi risale finalmente verso l’esplosione finale,
con tanto di organo e sciabolate di chitarra elettrica. Il modo che ha
Dollbaum di affastellare immagini nelle liriche delle canzoni ricorda
un po’ lo Springsteen dei primi due dischi, ma qui siamo lontani dall’universo
di local hero romantici che popolavano le notti di Asbury Park: il ritratto
del “Sunshine State” che ne ricaviamo è quello di uno sfondo per disperazioni
e solitudini che hanno più in comune con i racconti di Raymond Carver
(“Nothing good comes from Florida, including you” è il verso che, emblematicamente,
riassume tutto).
Dollbaum in Florida ci è nato ma ha trovato casa a New Orleans, dove è
andato per studiare poesia all’Università (il che spiegherebbe la cura
che pone nei suoi versi) e dove è rimasto a vivere facendo il falegname.
Le sue non sono braccia rubate alla carpenteria, però: questo disco di
esordio rivela una visione prepotentemente matura, e non solo per l’evidente
abilità con le parole ma anche per la bravura poco appariscente nel cucire
intorno a ogni bravo un vestito calzante. Wellswood non
appartiene a un genere particolare: il disco usa citazioni e stilemi al
servizio di un cantautorato dai tempi medi in bilico tra tensioni urbane
e malinconia rurale, in cui una pedal steel può fare irruzione in un brano
dalle ambizioni pop come God’s Country
o in cui improvvisamente ci ritroviamo ad ascoltare un soul piacione
dal passo felino e notturno come All is Well e svoltato l’angolo
veniamo avvolti da un tappeto di suoni ambient che vorticano intorno a
una chitarra acustica (Work Hard).
In certi punti invece la musica sembra ambire a dipanarsi in spazi aperti:
allora una leggera, avvolgente psichedelia di matrice country/folk ci
rapisce verso praterie cosmiche (Moon). La voce, che si srotola
pigra da un’affabulazione all’altra, è il centro di gravità degli otto
brani: uno strumento limitato per estensione ma capace di caratterizzare
in modo netto le canzoni con il suo flebile, ipnotico timbro. E quando
i tempi subiscono un’improvvisa accelerata e i suoni virano verso l’elettrico,
come nella nervosa e quasi younghiana Golden
Teeth, il contrasto tra il pulsare del brano e il tono
lamentoso del canto rende tutto più interessante. Insomma, dietro l’apparente
semplicità e quasi casualità del suo approccio alla musica, Dollbaum sembra
nascondere una concezione artistica molto chiara e che sarà interessante
seguire nelle sue future evoluzioni. Un po’ Israel Nash e un po’ Damien
Jurado, Thomas Dollbaum è uno su cui ci sentiamo di scommettere il nostro
centesimo.