Difficile scovare un’altra band che abbia saputo
tenere per trent’anni (l’esordio discografico è del 1993, quindi l’anno
prossimo ci sarà di che festeggiare) un livello produttivo costantemente
elevato come i Built to Spill di Doug Martsch. Forse, attraversando
l’Atlantico, solo gli scozzesi Teenage Fanclub potrebbero vantare una
carriera altrettanto limpida sulla lunga distanza. Un’avventura, quella
dei Built to Spill, incominciata nei garage di Boise, capoluogo di uno
degli stati meno prolifici in termini di contributi alla storia del rock
(la gloria locale è la cantante country e reginetta di bellezza degli
anni ’50 Judy Lynn), vale a dire l’Idaho. Per fortuna nel vicino stato
di Washington tra la fine degli anni ’80 e l’inizio del decennio seguente
qualcosa stava accadendo (Seattle vi dice niente?) ed evidentemente le
orecchie di Martsch erano abbastanza aperte da spingerlo a pensare che
i tempi fossero maturi per coniugare il suo amore per il Neil Young elettrico
con il verbo alternative rock allora in via di affermazione.
In origine i Built to Spill avrebbero dovuto essere una sorta di gruppo
aperto, con una formazione diversa disco dopo disco, ma le cose andarono
diversamente: dopo la firma con la Warner che portò al classico Perfect
from Now On nel 1997, la line-up rimase praticamente inalterata fino
al 2012, con il basso di Brett Nelson, i tamburi di Scott Plouf e la seconda
chitarra di Brett Netson ad assecondare le galoppate chitarristiche del
leader. Scusateci se ci prodighiamo in questo breve excursus storico,
ma cercando in archivio abbiamo scoperto che è la prima volta che su Rootshighway
si recensisce un album dei Built to Spill, e ci siamo sentiti in dovere
di pagare pegno alla grandezza di Martsch e della sua creatura. Almeno
tre dischi della band (oltre al già citato Perfect, anche There’s Nothing
Wrong with Love e Keep it Like a Secret) brillano tra le cose
migliori che la scena alternative abbia mai partorito, e anche nel resto
della produzione non è che manchino le gemme, più o meno nascoste.
Il penultimo disco di inediti, Untethered Moon, uscito nel 2015,
marcava il ritorno all’idea originaria di dare per ogni disco un volto
diverso alla band. Ora, sette anni dopo (ma il progetto si è avviato nel
2019 e ha subito i rallentamenti che si possono immaginare causa pandemia),
esce questo When the Wind Forgets Your Name, in cui Martsch
si fa accompagnare da due musicisti brasiliani del gruppo psichedelico
Oruã. Se Unthetered Moon poteva alimentare qualche sospetto di
cedimento alla routine, quest’ultimo album segna invece un netto ritorno
di forma. Il contributo di Lê Almeida (batteria) e João Casaes (basso)
infonde linfa e freschezza nel songwriting di Martsch, che mette insieme
un set di canzoni vario e godibile, in cui il feedback delle chitarre
lambisce territori stoner (Gonna Loose)
per poi accogliere nel suo seno variazioni lisergiche (la sognante
Fool’s Gold, la singhiozzante Spiderweb,
le trame byrdsiane di Alright) e svisate ritmiche (Rocksteady),
abbandonandosi quando è il momento a un power pop dai sapienti ganci melodici
(Understood) e suggellando il viaggio con uno dei migliori omaggi
allo spirito dei Crazy Horse che ci sia capitato di ascoltare a ovest
dei Dinosaur Jr (Comes A Day). Modo
migliore di festeggiare un trentennale non si poteva trovare.